Nel secolo scorso una delle trasformazioni più significative e tuttavia più sotterranee, meno comprese ed "osservabili", nel mondo dell'arte come delle altre sfere della creatività, riguarda la progressiva e faticosa conquista di una posizione di soggetto da parte della donna. Che cosa vuol dire “soggetto”? Vuol dire innanzitutto scontro finalizzato alla sottrazione di sé al ruolo predisposto per la donna da un certo ordinamento sociale e culturale.
Questa vera e propria impresa ha gravato soprattutto sulle spalle di artiste e donne come Leonora Carrington (1917-2011), pittrice e scrittrice, Meret Oppenheim (1913-1985), artista che ha prodotto oggetti, quadri e realizzato anche una performance, Leonor Fini (1907-1996), versatile pittrice, Sophie TaeuberArp (1889-1943), scultrice e pittrice, Sonia Delaunay (1885-1979) scultrice e attiva nelle arti tessili, Frida Kahlo (1907-1954), affacciatesi sulla scena dell'arte sullo scorcio degli anni Trenta, per lo più in ambito surrealista. Ma sarebbero da ricordare anche almeno Benedetta Cappa Marinetti (1897-1977), o il precedente della “scandalosa” Suzanne Valadon (1865-1938) che, contro tutti i pronostici e le possibilità riservate a “una come lei” nella Francia di fine Ottocento, compì sulla sua pelle tutto l'impervio cammino dal ruolo passivo di modella (di Renoir e di Toulouse Lautrec, tra gli altri) a quello attivo di pittrice.
Qual era la posta in gioco per queste donne? La rispettabilità sociale, ma anche una ridiscussione completa e sofferta dei "valori" etici ed umani di riferimento. In alcuni casi, infatti, queste donne non furono mogli o madri ma scelsero la libera convivenza con il proprio partner e, talora, la libera sessualità; una vita fuori dalle regole, molto lontana dal “focolare” o dai saloni di rappresentanza previsti dalle buone maniere di una classe sociale elevata cui, per esempio, la Carrington apparteneva. Certo, distruggere il conformismo e le regole è più facile che costruire un nuovo sistema di valori. Perché su una donna che aveva abdicato a tutta una serie di valori a lei riservati, il maschilismo di quell'epoca anteriore alla Seconda guerra mondiale tendeva a proiettare immediatamente ed automaticamente una serie corrispondente di "controvalori", cioè atteggiamenti e posizioni trasgressive e apertamente non patriarcali contrapposti a una femminilità protettiva e rassicurante.
La via faticosa attraverso cui le donne furono costrette a muoversi per costruirsi un'identità passò dalla considerazione che altri erano i problemi e gli interessi femminili rispetto a quelli che gli uomini avevano sempre immaginato nella loro egoistica appropriazione dei contenuti, della logica, del pensiero. C'era tutto da inventare, perché letteralmente mancava tutto: i modelli con cui identificarsi il senso del corpo, della bellezza, il concetto di responsabilità, il linguaggio. Si intende meglio allora, che tipo di posta abbiano messo in gioco le grandi innovatrici degli anni venti e trenta, quanto radicale sia stato il loro “ribaltamento del cielo”, quanto preziosa l'eredità consegnata alle generazioni a venire.
Eredità che, naturalmente, coinvolge non solo storie e biografie personali ma i modi di espressione e le opere. Le donne cominciarono a parlare d'arte: e anche da questo punto di vista gli interventi del femminile non hanno lasciato le cose come stavano. Anche in questo campo, infatti non mancavano pregiudizi e istruzioni per l'uso prefabbricate. La pittura poteva essere una piacevole occupazione per le signorine di buona famiglia di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento, alla stessa stregua del pianoforte, delle composizioni floreali o del ricamo, attività che facevano parte dell’educazione borghese femminile. La pittura doveva quindi restare su un piano esclusivamente dilettantistico e i suoi soggetti essere piacevoli, e poco impegnativi decorazioni di una figlia, di una moglie, di una sorella da esibire all’interno della casa.
Tutto questo non ha assolutamente niente a che vedere con Colazione in pelliccia di Meret Oppenheim o con il Doppio autoritratto di Frida Kahlo. La Oppenheim ne aveva piena coscienza e lo affermò infatti, con forza, quando le venne consegnato il Premio della Città di Basilea: gli uomini devono smettere di ribaltare sulle donne la loro parte femminile che non sanno accettare; ogni persona è sia uomo sia donna e l'arte partecipa di questa compresenza; le donne devono recuperare la forza, l'aggressività, il pensiero che spetta loro. E così via.
Insieme alla nuova identità artistica femminile affiorano elementi specifici, per esempio, spesso il dolore, nella forma di lacerazioni di una fisicità tormentata: basti pensare alla Kahlo, alla sua effige sofferta, a un corpo più “materializzato” fatto di muscoli e nervi, che ha rinunciato alla idealizzazione di sé e in qualche modo più sensibile; un corpo, in una parola, più "incarnato" e, come tale più vulnerabile.
La ricerca sul corpo come strumento espressivo si accentua ancor più nelle Neoavanguardie, e innanzitutto nella Body Art, praticata da artiste donne con radicalità e sistematicità assai maggiore di quella accessibile, di fatto, ai loro colleghi maschi, come conseguenza della maggiore consapevolezza che esse dimostrano nei confronti del proprio corpo, scaturita dalla più sofferta riappropriazione che hanno dovuto attraversare.
Emblematico risulta, per esempio, il percorso di Gina Pane (1939-1990). L'artista italo-francese parte dalla ferita, l'azione "classica" della Body-Art, come modalità per aprire il discorso legato al corpo trattato come struttura linguistica, elemento-base della comunicazione interpersonale. La ferita infrange un tabù sociale, rimette in discussione il valore ed il significato della rimozione del dolore da parte della cultura più diffusa, l'utilità dell'allontanamento delle categorie di bene e male dalla vita quotidiana. L’idea del male psicologico affiora attraverso i tagli che il corpo si infligge letteralmente per ricordarsi di sé, e per ricordare sé agli altri. Non solo: nell’ultima fase della sua opera, oltre che sulla carne Gina Pane era intervenuta su un’altra dimensione fondamentale del nostro essere-nel-mondo, il rapporto con la terra, stabilendo quindi un'affascinante ed attualissima correlazione fra il corpo e l'ambiente: entrambi violati, entrambi feriti e tormentati in maniera diretta. (> Azione sentimentale).
Anche Marina Abramovic (1946), più teatrale e drammatica, aveva messo in scena il corpo e la sofferenza, non ferendosi direttamente ma, per esempio, consentendo al pubblico di “usare” su di lei, che restava impassibile, oggetti diversi messi a disposizione, da un fiore a una pistola carica (> Rythm 0, a Napoli nel 1974)
Non è un caso che tutto questo lavoro sia stato compiuto da una donna, una donna generazionalmente più prossima a noi, non più partecipe, pertanto, dell'età eroica delle avanguardie storiche, eppure donna che sa ergersi, con fortissima presenza etica, come individualità partecipante, consapevole delle difficoltà contrapposte non soltanto alle donne ma alla vita stessa dalla sordità del mondo.
Il discorso delle donne oggi si è fatto molteplice e accorto, ricco di tutti i toni e tutti i registri. Resta però, senz'altro, un discorso più sensibile alla vita delle cose, che sa toccare con mano i problemi fondamentali di questo mondo attuale, che hanno profondamente a che fare con l’ecologia.
Oggi si può dire che per certi aspetti i ruoli si siano invertiti. Non si tratta più di attirare l'attenzione sull'espressività femminile, anzi, generalmente l'intervento di una donna in quanto tale ha molte più probabilità di ottenere uno spazio relativamente centrale nel sistema dell'arte rispetto a quello effettuato da un uomo. Ma è una falsa scorciatoia. Il punto è la valorizzazione autentica di un linguaggio altro, specifico, ma al tempo stesso integrato nel mondo dell’arte. E questo, naturalmente, non tutte le artiste hanno la forza per farlo, tanto più che nei numerosi "ambiti riservati" al femminile s'incontrano a volte più equivoci che comprensione effettiva. Il punto, infatti, non è quello di costruire un'"area protetta", che possa essere abitata dalla creatività delle donne, ma, invece, di verificare, con apertura mentale sempre maggiore, quanto la sistematica integrazione di tale creatività sia in grado di modificare il panorama stesso del sistema dell'arte, dei suoi luoghi e centri deputati come di quelli alternativi.
È dalle donne che provengono infatti alcune delle proposte più stimolanti, innovative e propositive degli ultimi anni. Provengono da donne occidentali, come per esempio la grande precorritrice Louise Bourgeois (1911-2010), o fotografe anagraficamente più vicine a noi, come Sam Taylor Wood (1967) e la famosissima Cindy Sherman (1954), artiste che fanno parte del mainstream artistico, ma anche donne provenienti da altre aree del globo e delle culture che lo abitano. Citiamo per esempio l’iraniana Shirin Neshat (1957), capace di vivificare una modalità espressiva assolutamente up to date come la fotografia con elementi in cui respira un valore completamente diverso dell'immagine e delle cose che vi si nascondono attraverso. Spiazzanti nella loro icasticità restano infatti, anche anni dopo la loro prima comparsa nelle rassegne internazionali, le donne islamiche da lei ritratte dai lunghi chadors neri, gli occhi umidi, le antiche poesie persiane scritte sulle porzioni di pelle in vista, e le armi in pugno (> Rebellious Silence).
Si tratta, insomma, di rivelare all'attenzione modalità espressive diverse da quelle tradizionali e arrivare a produrre elementi nuovi, culturalmente sorprendenti, fuori da quanto possiamo prevedere e valorizzare dal nostro limitato punto di vista, geografico, tecnico e culturale. Tutto è relativo: la sfida consiste nell' “ammorbidire” lo strumento-arte tanto da renderlo un veicolo versatile capace di percorrere con finezza, intelligenza e personalità tutti gli angoli del possibile. E le donne lo fanno.
Allo stesso modo, esplorano fino in fondo e con molta ironia anche il mondo tecnologico, cioè dei media e della comunicazione digitale in continua evoluzione. Mariko Mori (1967), per esempio, utilizza la cultura tradizionale giapponese alle sue spalle, il buddismo, come scenografia di una specie di spettacolo per il consumo di massa, dove agiscono personaggi cyborg, kitsch, futuribili che però mimano i valori tradizionali giapponesi, al fine di rendere il tutto molto “consumabile” (> Opere).