Nel corso della storia dell’arte sono state dipinte innumerevoli battaglie e alcune sono giustamente celebri. La Battaglia di San Romano (1438 circa) di Paolo Uccello pare illuminata da bagliori lunari ed è sospesa in uno scenario fiabesco e sognante. Quelle affrescate da Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco ad Arezzo (1452-1466) sembrano rappresentate al rallentatore, senza pathos e senza dramma: nella composizione vige un perfetto equilibrio cromatico e formale ma non si scorge affatto il furore dello scontro. In tal senso è esemplare la Battaglia fra Romani e Sabini dipinta negli ultimi anni del Settecento da Jacques-Louis David: se Piero aveva dipinto al rallentatore, quello di David è un fermo immagine in cui i guerrieri, messi in posa per l’occasione, sembrano sculture greche che si scrutano con calma olimpica e, benché i volti delle donne siano ritratti nell’atto di urlare, non si sente il rumore dello scontro.
Nel Cinquecento si incontrano casi celebri, come la Battaglia di Anghiari (1503-1504) di Leonardo, la Battaglia di Cascina di Michelangelo (1505-1506), entrambe perdute, e la Battaglia di Ponte Milvio dipinta da Giulio Romano nella Stanza di Costantino in Vaticano (1520-1524): opere di grande dinamismo con grovigli di corpi in movimento, nelle quali viene esibito un sorprendente virtuosismo tecnico. Nel Seicento, poi, proliferano artisti che si specializzano in questo genere di rappresentazioni e arrivano a meritarsi la definizione di “battaglisti” (il più grande di loro è Jacques Courtois detto “il Borgognone”). Nelle loro composizioni si vedono combattimenti furibondi all’arma bianca e cavalli impennati che disarcionano i cavalieri, si scorge il fumo delle colubrine che va a offuscare l’azzurro del cielo, risaltano i colori brillanti dei vessilli e la luce danza sulle armature: si tratta di opere decorative e accattivanti, create per lasciare a bocca aperta lo spettatore.
Dipingere la guerra, però, è un’altra cosa. Guernica di Picasso è l’esempio più fulgido di un soggetto tristemente frequente nella pittura del XX secolo, ma forse è stato Goya il primo pittore a rappresentare gli orrori della guerra in tutta la loro drammaticità e sicuramente è stato un esempio imprescindibile per lo stesso Picasso, oltre che per tutti coloro che successivamente hanno voluto affrontare il tema.
Nel 1808 la Spagna venne invasa dalle truppe napoleoniche e di conseguenza nacque una forte resistenza antifrancese durata fino al 1814, anno della definitiva liberazione e restaurazione della monarchia. Goya dipinse un episodio della resistenza spagnola, forse anche per ingraziarsi il nuovo sovrano, ma l’esito fu assolutamente sconvolgente. Il soggetto scelto è La fucilazione del 3 maggio 1808 (1814) e, dal punto di vista iconografico, l’opera non ha precedenti.La fucilazione del 3 maggio 1808 al Museo del Prado di MadridIl fulcro della composizione è il contadino ribelle in camicia bianca che alza impotente le braccia di fronte al plotone d’esecuzione mentre intorno a lui altri patrioti sono appena stati uccisi e altri ancora attendono la stessa sorte. Non è questa l’opera che Ferdinando VII si aspettava dal suo pittore: il re avrebbe voluto un dipinto celebrativo e invece ebbe un’opera di condanna, anzi, di denuncia dell’inutilità della guerra.
Goya non si limitò a questo straordinario manifesto pittorico e sviluppò il tema nei Disastri della Guerra, una cartella di 80 incisioni all’acquaforte realizzata tra il 1810 e il 1820 circa.I Disastri della guerra alla Real Academia de San Fernando di MadridSi tratta di un’invettiva contro la barbarie e l’assurdità della violenza di cui non si riesce a comprendere il motivo. Goya assistette a sei anni di guerra e nelle sue tavole riuscì a registrare il dramma della popolazione civile di fronte all’occupazione militare di un esercito straniero, lasciando ai posteri un potente e terrificante monito.
Nel XX secolo la sua lezione è stata raccolta da numerosi artisti, tra i quali corre l’obbligo di citare almeno i nomi di Käthe Kollowitz, Max Beckmann, George Grosz, e Otto Dix: autori che hanno fatto della loro arte uno specchio del nuovo clima artistico ma soprattutto sociopolitico e che hanno voluto attaccare i sistemi totalitari e condannare senza appello la guerra.
I nazisti capirono ben presto che le opere di questi pittori colpivano i nervi scoperti del movimento e mettevano a nudo la loro povertà intellettuale e la loro violenza. Una delle prime azioni repressive di Hitler, dopo avere preso il potere, fu proprio contro gli artisti: non solo contro quelli apertamente schierati contro di lui, ma contro qualsiasi forma espressiva non convenzionale, quindi tutte le forme d’avanguardia e di sperimentazione. Questo attacco culminò nel 1937 con la Mostra dell’arte degenerata di Monaco, dove vennero esposte opere dei pittori sopra citati ma anche di artisti stranieri, come Van Gogh, Gauguin, Braque, Matisse e, ovviamente, Picasso. All’inaugurazione di quella mostra Hitler disse: «Faremo una spietata guerra epuratrice per ripulire gli ultimi settori corrotti della cultura: hanno avuto quattro anni per adeguarsi, ora saranno distrutti senza pietà». Sedicimila le opere che scomparvero dai musei, circa mille i dipinti e quasi quattromila i disegni bruciati.
In questo drammatico contesto storico Picasso creò il più celebre e iconico manifesto contro la guerra: Guernica fu dipinto proprio nel 1937, mentre in Germania venivano accesi roghi di opere d’arte e in Spagna imperversava la guerra civile combattuta tra l’esercito repubblicano e le milizie del generale Francisco Franco.Guernica al Museo Reina Sofia di Madrid
Il 25 aprile 1937 il generale Mola lanciò via radio un ultimatum ai baschi: «Franco sta per assestare un colpo mortale contro il quale ogni resistenza sarà vana. Arrendetevi ora e avrete salva la vita». Mola era uno dei generali più potenti e sanguinari dell’esercito franchista, temuto perfino da Franco. Morì il 3 giugno dello stesso anno in un incidente aereo avvenuto in condizioni ancora oggi misteriose. Testimoni oculari hanno raccontato che Franco non fu né troppo sorpreso né troppo disperato quando ricevette la notizia della sua morte.
Guernica oggi esiste ancora: è stata ricostruita, conta quindicimila abitanti ed è stata insignita del titolo di “città della pace”. È un borgo antico, fondato nel 1366, con un alto valore simbolico per il popolo basco. Nel 1937 contava settemila abitanti.
Il 26 aprile di quell’anno a Guernica c’era il sole, era lunedì e, come tutti i lunedì, era giorno di mercato: la cittadina era brulicante di gente. Alle 16.40 la legione Condor dell’aviazione tedesca iniziò un bombardamento a tappeto con bombe incendiarie da cinque quintali. La gente cercava di fuggire verso la campagna, ma aerei dotati di mitragliatrice inseguivano i civili volando a bassa quota. Il bombardamento durò più di tre ore, fino alle 19.45. Alla fine a Guernica, completamente rasa al suolo, divampava un enorme incendio. Fu la prima città nella storia a essere distrutta dall’aviazione: non era un centro strategico, si trattò di un’azione dimostrativa per impressionare il nemico e un esperimento per le future azioni belliche dell’aviazione nazista. Nazisti e franchisti, all’indomani del bombardamento negarono ogni responsabilità e accusarono i baschi di avere incendiato la città per screditare l’esercito nazionalista: ci fu chi sostenne questa tesi fino agli anni Settanta. Quel giorno a Guernica, però, i testimoni, gli osservatori e i giornalisti internazionali di testate dell’importanza del Times, del Daily Telegraph, di Ce Soir e della Reuter erano numerosi e contribuirono in maniera determinante a far emergere la verità. Benché ancora oggi gli storici discutano sull’effettivo numero delle vittime, all’epoca i primi dati ufficiali riportarono la notizia di oltre millecinquecento morti e quasi mille feriti.
La violenta polemica scoppiata nonostante le menzogne raccontate dai responsabili turbò profondamente Picasso, che decise di dedicare all’evento il quadro commissionato per il padiglione spagnolo all’Esposizione Universale di Parigi di quell’anno. L’artista, però, aveva già iniziato un’opera riguardante la guerra civile spagnola, che sarebbe dovuta servire alla raccolta di fondi per sostenere il fronte repubblicano. Si tratta di Sogno e menzogna di Franco, due fogli incisi all’acquaforte e all’acquatinta.Sogno e menzogna di Franco al Museo Reina Sofia di MadridLe lastre di rame vennero incise di getto in due giorni, nel gennaio del 1937, ma furono abbandonate prima che la seconda venisse ultimata. Picasso si era ispirato al genere della stampa popolare spagnola e creò una serie di caricature di Franco, nelle quali il Caudillo assume le forme di un orrido e ripugnante mostro ritratto in azioni laide e irridenti: Franco trionfante a cavallo mentre il cavallo sta espletando i suoi bisogni fisiologici, Franco disarcionato da cavallo, Franco che distrugge a picconate le bellezze dell’arte, Franco che cavalca un maiale, Franco che cavalca il suo stesso membro, Franco che prega circondato dal filo spinato, Franco che si atteggia a dama vezzosa e Franco sventrato dal toro, simbolo della Spagna.
Dopo il bombardamento di Guernica Picasso iniziò a lavorare febbrilmente al grande dipinto che avrebbe dovuto presentare a giugno all’Esposizione Universale e, contestualmente, portò a termine la seconda lastra di Sogno e menzogna di Franco, ma con stile e modi espressivi completamente diversi rispetto ai primi disegni: la caricatura e l’ironia, per quanto feroci, erano ormai inadeguate alle vicende intercorse. Gli eventi avevano cambiato irrimediabilmente la storia e l’artista si dovette adeguare. Le nuove immagini che completano l’incisione nacquero insieme al grande dipinto e derivano dai medesimi disegni. Sogno e menzogna di Franco è indubbiamente il manifesto antifranchista di Picasso, ma il grande quadro che stava per nascere nel maggio 1937 è universale e di ben maggiore respiro.
Picasso iniziò a lavorare a Guernica il 1° maggio, dopo avere visto alcune sconvolgenti fotografie pubblicate il 30 aprile dal quotidiano Ce soir. Il primo approccio è emotivo, ma ben presto nella sua mente la cronaca si è trasfigurata attraverso elementi simbolici che avrebbero contribuito a conferire una vita autonoma e universale alla tela. Nei primi giorni di lavoro creò quindici diversi studi della composizione e, in totale, realizzò circa cento disegni (ne sono rimasti quarantacinque, per lo più datati). È possibile seguire il lavoro di Picasso quasi giorno per giorno grazie alle fotografie scattate dalla sua compagna Dora Maar, che documentano otto stati della composizione fino a quello definitivo del 4 giugno. Possiamo quindi vedere come l’artista abbia cambiato progressivamente il suo pensiero durante il lavoro, come sia partito da idee che nella sostanza sarebbero rimaste valide ma che si trasformarono per raggiungere una perfetta unità compositiva e una perfetta sintesi formale e cromatica. I primi schizzi presentano un vivace colorismo e un’intonazione piuttosto descrittiva, mentre il dipinto è quasi monocromo e presenta una riscrittura più meditata delle forme. Questo aspetto emerge chiaramente confrontando il foglio raffigurante la Madre col bambino morto, in cui la chioma della donna è realizzata con capelli veri incollati sulla carta, con il medesimo soggetto dipinto, nel quale si riscontra uno stile più sobrio ma al contempo un impatto visivo più forte e immediato. L’evoluzione del pensiero compositivo è particolarmente interessante anche nella figura del cavallo, che dal disegno del primo maggio fino alla realizzazione definitiva ha subito variazioni importanti.
Molto si è scritto sul valore simbolico e allegorico dell’opera e sui suoi significati. L’autore non ha fornito una spiegazione univoca e dettagliata del proprio lavoro, che è in realtà polisemantico e quindi aperto a molteplici possibilità di lettura. Le singole figure sono state variamente decodificate, anche con ipotesi tra loro contrastanti, ma in realtà è ben più significativa e interessante un’interpretazione di ampio respiro. Nel 1937 Christian Zervos1, dedicò all’opera un numero dei Cahiers d’art, la prima monografia su Guernica, nella quale fornì una chiave per comprendere il dipinto, analizzato non solo come il resoconto di una battaglia cruenta e drammatica, ma come l’immagine della condizione umana. Guernica è messaggio per la pace, la dignità e la libertà degli uomini e delle donne del mondo intero. E forse è per questa ragione che le vittime e gli oppositori di tutte le guerre successive, a partire dalla Seconda guerra mondiale, si sono riconosciuti nell’opera e hanno fatto di Guernica un simbolo universale.
È emblematica anche la storia del dipinto. Nel 1937 venne presentato all’Esposizione Universale di Parigi nel padiglione spagnolo, dove fu esposto di fronte a una fotografia di dimensioni monumentali di Federico Garcìa Llorca, fucilato il 18 agosto 1936 da una falange franchista. Al termine dell’Esposizione Guernica intraprese una vera e propria tournée per raccogliere fondi per la causa repubblicana, in Scandinavia a Copenaghen, Goteborg, Stoccolma e Oslo, a Londra e poi a New York, dove rimase in seguito allo scoppio della Seconda guerra mondiale. L’opera apparteneva allo Stato spagnolo, ma Picasso aveva posto come condizione che non tornasse in Spagna finché non fossero state ristabilite le libertà repubblicane. Quindi rimase al Museum of Modern Art di New York. Nel 1968, a sorpresa, Franco reclamò la restituzione del quadro, scatenando accese polemiche, ma non ottenne soddisfazione. Guernica è tornato in Spagna solo dopo la morte del dittatore, avvenuta nel 1975, e solo dopo lo svolgimento di regolari elezioni nella penisola iberica. Giunse nel 1981 al Prado di Madrid, quale degna celebrazione del centenario della nascita di Picasso, con il solo dissenso dei nostalgici franchisti, mentre le forze politiche basche avrebbero voluto il dipinto nella cittadina di Guernica. Oggi il quadro si trova al Museo Reina Sofia di Madrid.
Note
1. Christian Zervos (1889-1970), celebre editore, collezionista e storico dell’arte, è l’autore del monumentale catalogo ragionato dell’opera di Picasso, di cui ha pubblicato ventidue volumi dal 1932 fino alla sua morte. È stato anche il fondatore dei Cahiers d’art, rivista di fondamentale importanza per la promozione dell’arte contemporanea in Francia nel XX secolo.