Don Lorenzo Milani nasce, durante il periodo fascista, il 27 maggio del 1923 da Albano Milani, laureato in chimica, poeta, filologo, conoscitore di sei lingue, e da Alice Weiss, donna colta di origine ebrea.
Per quanto riguarda la religione, la sua famiglia ha sostanzialmente un atteggiamento noncurante, agnostico, laico e, se dieci anni dopo i coniugi Milani, che erano sposati civilmente, celebreranno il matrimonio in chiesa e battezzeranno i tre figli, sarà piuttosto per timore delle leggi razziali nazifasciste.
Nel 1930 tutta la famiglia si trasferisce a Milano per ragioni economiche; a Milano, Lorenzo, passerà tutta la sua infanzia e l’adolescenza. Non fu mai uno studente modello. Della formazione ricevuta nella scuola pubblica fascista dirà nella Lettera ai Giudici: " Ci presentavano l’Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri s'erano dimenticati di dirci che gli Etiopici erano meglio di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla. Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo. Preparava milioni di soldati obbedienti. Obbedienti agli ordini di Mussolini. Anzi, per essere più precisi, obbedienti agli ordini di Hitler".
Il 21 maggio '41 la guerra anticipa la chiusura delle scuole. Lorenzo viene dichiarato maturo ma rifiuta d’andare all’università; sceglie invece di dedicarsi alla pittura. E' proprio attraverso una ricerca sui colori della liturgia cattolica che Lorenzo si avvicina in qualche modo alla Chiesa. Il 3 giugno '43 è la data della conversione e dell’incontro con don Raffaele Bensi, che ne diventerà il direttore spirituale. Entra in seminario dove non tarderanno a venire contrasti vari con i suoi "superiori". La famiglia non approva la scelta di vita religiosa del figlio. Infatti, alla cerimonia della tonsura, l’atto d’ingresso alla vita ecclesiastica, nessuno dei parenti sarà presente.
Con il 1943 iniziano le persecuzioni contro gli ebrei a Firenze.
Il 13 luglio '47 a Santa Maria del Fiore viene ordinato sacerdote e, due mesi dopo, raggiunge il grosso borgo operaio di San Donato di Cadenzano per assistere un vecchio sacerdote. E' qui che fonda la scuola popolare, che accoglie soprattutto adulti; e' qui che nasce il nucleo forte di Esperienze pastorali.
Nel 1951 si ammala di tubercolosi. Appena muore il suo parroco, don Milani viene trasferito: è nominato priore di Sant’Andrea a Barbiana, 475 metri sul livello del mare nei monti del Mugello, sopra Firenze. Il 6 dicembre 1954, durante una giornata di pioggia, arriva a Barbiana: Non c'è la strada, non c'è la luce, non c'è l’acqua. Nella parrocchia, che doveva essere chiusa, vivono una manciata di famiglie sparse tra i monti.
A pochi giorni dal suo trasferimento da San Donato a Barbiana, don Lorenzo si era già reso conto del tentativo condotto dalla Chiesa fiorentina per isolarlo e renderlo innocuo, e così scrive: "...un prete isolato è inutile", ancora inconsapevole di quello che sarebbe accaduto. Fonda una nuova scuola per i suoi ragazzi "montanini", dove i poveri imparano la lingua senza ambizioni di successo scolastico ma con l’obiettivo di non essere subalterni. Sono molti gli intellettuali attratti dalla figura di don Milani e dalla sua scuola. Numerose le visite a Barbiana: da Pietro Ingrao al teorico della nonviolenza Aldo Capitini a Mario Lodi.
A marzo del '58 viene pubblicato Esperienze pastorali con l’imprimatur del cardinale. Il tema di fondo è la nuova pastorale utile a ricostruire un rapporto con la classe operaia, con i poveri. Tra gli estimatori del capolavoro di don Lorenzo: Luigi Einaudi, don Primo Mazzolari, monsignor Giulio Facibeni. Il libro suscita non poche polemiche. Il 15 dicembre dello stesso anno il Sant’Uffizio ordina il ritiro dal commercio dell’opera e ne proibisce ristampa e traduzione perché il testo è giudicato inopportuno.
Il 28 ottobre '58 diventa papa Giovanni XXIII che di lì a qualche anno convocherà il Concilio vaticano II (1962-'65): una rivoluzione per la Chiesa. Intorno al '60 arrivano i primi sintomi del tumore ai polmoni: un linfogranuloma maligno. La malattia che lo porterà alla morte. Nel febbraio del 1965, nel corso di un’assemblea, i cappellani militari della Toscana in un comunicato definiscono l’obiezione di coscienza espressione di viltà. Don Lorenzo elabora la Risposta ai cappellani militari in cui difende appassionatamente il diritto ad obiettare ma soprattutto il diritto a non obbedire acriticamente. La risposta viene pubblicata da Rinascita il 6 marzo. Esplode la polemica, il priore è minacciato di venir sospeso dal suo ministero e denunciato, da alcuni ex combattenti. Viene processato. In vista del processo, non potendo parteciparvi perché malato, prepara la Lettera ai giudici. Un anno dopo viene assolto, ma la diatriba continua.
Don Lorenzo morirà prima del processo d’appello in cui la corte sentenzierà che "il reato è estinto per morte del reo": una condanna. Nonostante la grave malattia viene preparata la Lettera a una professoressa, contro la scuola classista che boccia i poveri. Un'opera scritta dalla scuola di Barbiana collettivamente che verrà pubblicata a maggio del '67 e tradotta in molte lingue.
Nel marzo '67 il priore si trasferisce a Firenze a casa della madre; la malattia gli impedisce di parlare. Muore il 26 giugno '67 ad appena 44 anni. è ai suoi ragazzi ormai cresciuti che lascia le ultime a lui care parole: " Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che Lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto la suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo".
In un epoca sempre più informatizzata dove la parola, scritta e parlata, si rivela, da un lato abusata e strumentalizzata, con conseguente svalutazione e, dall’altro risorsa preziosa e contesa, dunque sempre più disponibile a chi detiene rilevanti mezzi finanziari per controllarne la produzione e la distribuzione (vedi giornali, televisione, pubblicità), il contributo di don Milani si carica di valenze, a ben vedere forti, incisive. Infatti, l’importanza che assume la ricerca del significato delle parole e l’uso della scrittura nella scuola da lui fondata ci aiuta a riconsiderare la pratica ordinaria della comunicazione nell’attuale contesto storico e sociale. Del resto, era la stessa posizione geografica lontana e difficilmente raggiungibile di Barbiana che richiedeva, per affacciarsi sugli avvenimenti della realtà, di usare i giornali e la corrispondenza. Inoltre le estreme condizioni di ignoranza e analfabetismo costituivano un freno per le basilari capacità di autonomia culturale, crescita civile e apertura agli altri: "la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale [....]".
Al di là del libro di testo e del suo studio, sembra dirci don Milani, la questione essenziale è se l’alunno riesce a confrontarsi e fare sue le idee e le visioni che ogni discorso fatto da altri veicola. Così, l’apprendimento del linguaggio non può che procedere a ritroso: " Non faccio che lingua e lingue [straniere]. Mi richiamo dieci, venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seleziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi. Nei primi anni i giovani non ne vogliono sapere di questo lavoro perché non ne afferrano l’utilità pratica. Poi pian piano assaggiano le prime gioie. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta". Infatti, "chiunque se vuole può avere la grazia di misurare le parole, riordinarle, eliminare le ripetizioni, le contraddizioni, le cose inutili, scegliere il vocabolo più vero, più logico, più efficace, rifiutare ogni considerazione di tatto, di interesse, di educazione borghese, di convenienze, chieder consiglio a molta gente (sull’efficacia non sulla convenienza)".
Ma non è solo una questione di tecnica e critica intellettuale ma soprattutto, si direbbe, di etica della comunicazione. come, vedremo pure più avanti, in educazione la comunicazione tra maestro e allievo, sbilanciata per la maggiore abilità linguistica del primo, è sempre stata terreno delicato in quanto aperto a rischi di manipolazione e mistificazione.
Al contrario afferma l’autore: "Il desiderio d’esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo s'intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Per cui esser maestro, esser sacerdote, essere cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa".
Da queste parole, si evince chiaramente come nel nostro autore l’ispirazione cristiana ( carità verso i poveri è farsi come loro) si unisce ad una visione di educazione come scuola di vita. Martinelli ha chiamato questo modo d’insegnare e apprendere direttamente dalla realtà, pedagogia dell’aderenza: "partendo dall’ambiente in cui vive, l’allievo organizza e costruisce la propria conoscenza. Il docente, nel costruire il significato, struttura, con il discente, un ambiente d’apprendimento di partenza. Dal particolare all’universale".
Si spiega così come mai i ragazzi potessero trascorrere nella scuola popolare di don Milani tutta la giornata, da mattina a sera, affiancando lo studio delle normali materie alla pratica in veri e propri laboratori; accanto alla lingua, alla storia e alla geografia si imparava a lavorare in officina, in falegnameria o in uno studio fotografico. L’incontro abituale con ospiti pieni di esperienze da raccontare e l’esplorazione dell’ambiente naturale circostante completavano un modello di scuola più difficilmente ripetibile a livello istituzionale che a livello territoriale da centri educativi e del tempo libero, oratori innestati nel locale. d’ altro canto è anche la personalità, sicuramente esuberante e affascinante, di don Milani a rendere la sua proposta difficilmente semplificabile. Al riguardo Marcello Farina afferma: " In un’atmosfera del 'pensiero debole' il ritratto di un uomo forte può risultare incomprensibile, lontano, persino fraintendibile". Tanto è vero che non si sono risparmiate critiche sia sulla sua religiosità che sul suo metodo pedagogico considerato da alcuni illiberale e autoritario. Ma, sebbene il maestro di Barbiana si spingesse ad un rigore che a volte arrivava anche a fare uso di ceffoni, l’idea di maestro e di scuola che ci proviene dalle sue riflessioni, ma anche dai ricordi dei suoi alunni, ci appare più ricca di profonda empatia e autonomia, per dirla con termini moderni. è in questo senso che può esser letta una sua frase alquanto significativa ma critica "la scuola non può essere che aconfessionale, e non può essere che da un cattolico e non può essere fatta che per amore (cioè non dal lo Stato)".Infatti, sostiene Marcello Farina che "se a San Donato don Milani pensava di fare della scuola un mezzo per portare al Vangelo, a Barbiana egli si convince che il Vangelo vissuto, incarnato nei suoi studenti, figli di povera gente, diventa la scuola che libera, che emancipa, che salva".
Infine, in un contesto come quello italiano in cui attorno alla scuola (soprattutto sulla questione pubblico - privato) si accumulano steccati e contrapposizioni il più delle volte alimentate da ragioni ideologiche e "in chiara ed esplicita polemica con la tradizione tendente a concepire l’opera scolastica in funzione della pura e semplice integrazione con i modelli della società, della Chiesa o di un qualsiasi altro ordine precostituito, egli andò sempre più avvertendo che compito della scuola era quello di stimolare le persone a prendere in mano le sorti del loro destino. Occorre però aggiungere che agli occhi di don Milani la scuola doveva congiuntamente dare ai ragazzi il senso della solidarietà che lega gli uomini gli uni con gli altri. Si trattava cioè di educare non a un’autonomia di giudizio fine a se stessa, ma a una libertà che proprio nel momento in cui affrancava dall’ignoranza, dal conformismo, dalla pigrizia e da tutti gli altri limiti sui quali le classi privilegiate speculavano per esercitare indisturbate il loro potere sviluppasse il gusto del servizio agli altri in vista dell’avvento di un’umanità finalmente impregnata dalle beatitudini evangeliche".