L’esistenzialismo si presenta come una volontà di riflessione concreta dell’uomo e sulla sua condizione. Poiché ogni individuo possiede una sua personale sensibilità che gli fornisce una particolare «intuizione del mondo», l’esistenzialismo si è sviluppato secondo direttrici diverse, fondate ciascuna su un diverso modo di sentire la realtà:
Il tratto fondamentale di ogni filosofia dell’esistenza è costituito dall’intuizione e dall’esperienza di una libertà assoluta. La formula di Sartre «l’esistenza precede l’essenza» significa infatti che noi non siamo predeterminati al momento del nostro apparire nel mondo, ma che creiamo il nostro destino con le nostre libere scelte, che siamo del tutto responsabili di noi stessi. L’esistenzialismo è dunque in primo luogo una filosofia morale, un «umanismo» che esalta l’impegno e rifiuta la speculazione tradizionale. Questa, illudendosi di ricercare all’infinito i motivi dell’azione umana, conduce all’assenteismo e all’immobilità.
Dal punto di vista teorico, l’esistenzialismo muove dalla constatazione che l’uomo inizialmente non è un essere raziocinante, ma semplicemente un essere incarnato nell’esistenza. In tal senso siamo come «imbarcati» e non possiamo riflettere che a partire dall’esistenza, la quale rappresenta la verità immediata.In questo senso l’esistenzialismo si avvicina al marxismo, per il quale l’impegno che ci lega alla vita è la struttura di fondo di tutte le nostre idee.
L'Estistenzialismo di Heidegger
“Essere e tempo” (1927) del filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976), riassunto di Filosofia schematico e completo per conoscere e memorizzare rapidamente. In “Essere e tempo” Heidegger espone le tesi principali del suo Esistenzialismo.
Lo scopo dichiarato è quello di determinare il senso dell’essere (ontologia).Heidegger distingue dall’essere i modi particolari dell’essere, che formano l’essente: un modo dell’essere è l’esserci, che è l’esistente, e cioè l’uomo. L’uomo analizza con estremo impegno l’esserci e le diverse situazioni di esso nel mondo, giungendo alla conclusione che l’essere-nel-mondo è costitutivo dell’esserci.Questo significa che l’esistenza, per la sua stessa struttura, è essere gettato nel mondo, e che l’angoscia – da non confondere con la banale paura – attesta una condizione di precarietà e di imperfezione.
L’esistenza trova il suo compimento, il suo fine, nella morte. Dunque l’essenza dell’esserci è l’essere-per-la-morte. Per quanto l’esistente si sforzi di uscire da sé, di unirsi agli altri, nella vita sociale e nella operosità storica, egli si ritrova alla fine sempre solo e angosciato e conquista il senso genuino di sé solo accettando il suo destino. Questo implica il prendere coscienza del suo essere nel tempo (storicità), del nulla da cui è emerso, e della libertà, che, in quanto accettazione dell’essere-per-la-morte, è anche l’unica via per cui l’esistente può trascendere il mondo e conquistare la propria autenticità. L’esserci è così al tempo stesso il fondamento della realtà e della sua intelligibilità, il costruttore del mondo.
L’opera “Essere e tempo” è rimasta incompiuta perché – ha affermato Heidegger – mancava un linguaggio adatto per definire l’essere.
Jean-Paul Sartre
Jean-Paul Sartre, sicuramente uno dei maggiori esponenti del cosiddetto esistenzialismo ateo, cerca di spiegare tale corrente di pensiero, che andrà ad influenzare non solo la filosofia, ma anche l’arte, la letteratura, il teatro, la politica, in un semplice e breve testo nato nel 1946 con l’intento di chiarire molte delle incomprensioni e delle ambiguità che ruotavano attorno a tale orientamento culturale. In quest’opera (L’esistenzialismo è un umanismo) sentiamo Sartre parlare di esistenzialismo con termini quali responsabilità, progetto, scelta, angoscia, libertà, giungendo, infine, ad affermare che questa corrente non sia altro che «uno sforzo per dedurre tutte le conseguenza da una posizione atea coerente»;2 vediamo dunque di chiarire tali affermazioni.
Il filosofo francese parte da una constatazione all’apparenza tanto evidente quanto radicale: la differenza tra un essere quale un oggetto (penna, tavolo, …) e un essere umano (o quanto meno un ente dotato di coscienza). Viene così a descrivere il primo come essere in sé, come un essere dotato di un’assoluta opacità, consistenza, un’essere che è, esiste ancor prima di qualsiasi categoria logica quale l’attività, la passività, la temporalità. L’in sé è qualcosa di totalmente pieno, senza alcuna possibilità, senza alcuno spazio, precedente anche le categorie di possibilità e di necessità: l’in sé è contingente, gratuito, piena positività. Opposto a questo modo d’essere c’è l’essere per sé rappresentante il punto di vista di una coscienza. Il per sé abbandona completamente quella pienezza che caratterizzava il suo precedente (è infatti garantita anche una successione temporale tra i due) accogliendo in sé una fessura, uno spazio, un Nulla che gli permette quelle oscillazioni necessarie al mantenimento della coscienza, della libertà, delle ekstasi temporali… Il per sé, allora, è visto come presenza all’essere ma contemporaneamente come distanza, come un essere di fronte a l’in sé senza alcuna possibilità di coincidenza, senza speranza di unione.
E questa la cosiddetta «coscienza infelice», abbandonata a se stessa e obbligata alla propria libertà senza possibilità d’appello ad altro da sé, senza una minima direttiva, gettata nell’abisso insondabile della scelta. Si vedono, così, emergere i caratteri di libertà e scelta, anticipati all’inizio. Da qui il passo è breve verso l’angoscia, l’angoscia di trovarsi liberi di agire, ma non solo, anche di dar senso alla realtà, liberi di trasformare, di trasformarsi senza mai poter trovare una giustificazione dietro alla quale nascondersi. Se l’esistenzialismo propone un esaltante elogio della libertà, d’altra parte evidenzia anche il dramma del portare un’esistenza ingiustificata, la sofferenza di trovarsi responsabili di qualunque atto, anche di quelli non voluti, l’impossibilità di uscire dalla concatenazione delle continue, inesorabili scelte. La nostra esistenza è un’esistenza condannata ad essere libera e noi siamo condannati ad essere sempre da soli. Il per sé realizza così il suo gravoso compito: l’esistere, che se da un lato lo costringe costantemente alla libertà, ad una continua scelta, ad un doversi rifare, ricreare ad ogni bivio della vita, dall’altro non fornisce alcuna giustificazione, alcuna motivazione.
Sartre presenta altri tentativi di fondare la propria esistenza da parte del singolo, di eliminare l’angoscia dell’essere soli e ingiustificati, anche questi però destinati allo scacco. Questa volta siamo sul piano interpersonale e tale possibilità si gioca nell’altalenare degli equilibri tra l’io e gli altri; nel primo di questi atteggiamenti Sartre raggruppa l’amore, il linguaggio, il masochismo spiegando, con questi esempi, la tendenza al darsi all’altro nel tentativo di derivare da questo un fondamento del proprio esistere; ecco allora che l’amato, ad esempio, sente che la sua esistenza «è ripresa e voluta nei suoi minimi particolari da una libertà che esso condiziona nella stesso tempo. È questo in fondo la gioia d’amore, quando c’è: sentirsi giustificati d’esistere». Dall’altra parte compare anche la tendenza opposta del voler sottomettere la libertà d’altri, del voler caricarsi sulle spalle anche la libertà di chi ci sta di fronte; compaiono così atteggiamenti quali il desiderio, il sadismo, l’odio