La categoria degli “immigrati” raccoglie soggetti molto eterogenei, e con una dotazione assai differenziata di status legali e di diritti (Ambrosini, 2020a). Molta confusione e difficoltà di gestione del fenomeno derivano dalla sovrapposizione e commistione di popolazioni diverse: migranti tra paesi dell’UE, che godono di diritti assai prossimi a quelli dei cittadini nazionali; immigrati da paesi esterni con permessi di lunga durata o a breve termine; immigrati altamente qualificati, che nell’UE godono di un permesso di soggiorno ad hoc, la “blue card”; nonché altre categorie, come gli studenti, gli sportivi, i ministri di culto. Anche nella galassia dei rifugiati le distinzioni sono rilevanti, a seconda del livello di protezione accordata. Discutere di immigrazione e di politiche migratorie europee significa navigare tra queste diverse popolazioni, evitando di confonderle.
In termini numerici, nell’UE risiedono (fine 2020) circa 37,4 milioni di immigrati, di cui però 14,4 sono cittadini dell’UE. Il fenomeno si articola in modo molto variabile: piccoli paesi come Lussemburgo e Malta, anche per ragioni fiscali, capeggiano la classifica dell’incidenza sulla popolazione residente, con valori anche superiori al 40%, mentre i paesi dell’Europa centro-orientale si collocano al polo opposto della distribuzione, con la Romania in coda, con un’incidenza dello 0,7%.
Schematicamente, si può parlare di tre regioni dell’UE in relazione all’immigrazione (Triandafyllidou e Gropas, 2014). La prima è l’area nord-occidentale, in cui rientrano i paesi di più antica tradizione di attrazione prima di lavoratori, poi famiglie immigrate: Germania e Francia sono i principali. La seconda è la regione dell’Europa meridionale, passata negli ultimi decenni da area di tradizionale emigrazione ad area di prevalente attrazione di consistenti flussi d’immigrazione, malgrado il recente rafforzamento di nuovi flussi in uscita: Italia, Spagna, Grecia, Portogallo. La terza è la regione centro-orientale, bloccata fino al 1989 dal dominio dell’Unione Sovietica e diventata dopo di allora un’importante area di provenienza di nuove migrazioni. Contrariamente a quanto si crede comunemente, in Europa come in Italia almeno la metà degli immigrati sono europei. La caduta del muro di Berlino è stata l’evento più importante per l’immigrazione in Europa negli ultimi decenni.
Fin dagli esordi della costruzione politica dell’Unione Europea, la libertà di movimento interna attraverso i confini nazionali e la possibilità di cercare lavoro in altri paesi membri sono stati considerati obiettivi-chiave dagli Stati aderenti, al pari della libertà di circolazione di beni e servizi (Ferrera, 2012). Sul versante esterno invece, a partire dalla crisi economica del 1973, i nuovi ingressi per lavoro sono stati ufficialmente quasi del tutto bloccati.
Riguardo a quelle che vengono definite “migrazioni economiche”, la scelta dei governi dell’UE (e più in generale del Nord globale) è quella della selezione dei candidati secondo tre criteri, che potremmo definire le “tre P”: i passaporti, i portafogli, le professioni. Entrano coloro che posseggono passaporti “forti”, ossia i cittadini del Nord del mondo, e in una certa misura i cittadini di pesi intermedi, come quelli dell’Europa orientale non appartenenti all’Unione: in genere possono entrare per soggiorni turistici senza obbligo di visto. Entrano i benestanti: quanti si presentano come investitori o possono esibire garanzie economiche di un certo livello. Entrano infine, i lavoratori con alte professionalità, compresi medici e infermieri (oltre 77.000 in Italia).
Di conseguenza, lo sviluppo di un libero mercato del lavoro interno è stato promosso in contrapposizione con una chiusura selettiva nei confronti dei lavoratori esterni. L’accordo di Schengen, stabilito nel 1990, è considerato la pietra angolare di questa politica. In seguito, il Trattato di Amsterdam (siglato nel 1997, in vigore dal 1999) e gli accordi di Tampere (1999-2004) hanno fissato tre principali obiettivi: primo, la gestione dei flussi migratori, con riguardo al controllo dei confini e alla lotta contro “l’immigrazione illegale”; secondo, l’equo trattamento dei cittadini extracomunitari, con riferimento alle procedure di ammissione sul territorio dell’UE e all’integrazione sociale; terzo, i partenariati con i paesi di origine, relativi alla dimensione esterna delle politiche migratorie. A sua volta, il codice di Schengen del 2006 ha fissato regole comuni per il movimento delle persone attraverso i confini, rafforzando i controlli alle frontiere esterne dell’UE e quasi abolendo in pratica le frontiere interne tra gli Stati aderenti all’accordo.
L’attuazione di questo quadro normativo si è però rivelata più complessa e travagliata del previsto. L’attenzione si è concentrata soprattutto sul controllo dei confini e la sicurezza. Va ricordata l’istituzione nel 2004 di un’Agenzia europea per la gestione della cooperazione nel controllo dei confini esterni dell’UE, comunemente conosciuta come Frontex. Ne 2011 è stato poi varato un Sistema europeo di sorveglianza dei confini (EUROSUR).
In sintesi, gli Stati membri dell’UE non stanno perdendo il controllo sui flussi migratori, come a volte si sostiene, ma hanno fatto ricorso a una combinazione di nuove misure per porre sotto controllo l’immigrazione indesiderata. Al contrario, le politiche di ammissione di nuovi residenti, le norme sulla cittadinanza e la protezione dei diritti umani non hanno compiuto i medesimi progressi. I governi nazionali hanno difeso le loro prerogative in materia, e le istituzioni dell’UE hanno ampiamente fallito nel tentativo di stabilire regole e politiche comuni. La politica risultante si rivela quindi sbilanciata in favore delle misure di sicurezza e della lotta contro l’immigrazione non desiderata.
Il secondo ambito delle politiche dell’immigrazione nell’UE si riferisce all’integrazione sociale degli immigrati e all’accesso alla cittadinanza. Qui, nonostante i limiti e ritardi già ricordati, alcuni progressi sono stati conseguiti. Uno di questi è lo sviluppo di legislazioni tolleranti nei confronti della doppia cittadinanza, una tendenza che vede gli Stati dell’UE all’avanguardia di un processo globale, che comprende attualmente più di cento paesi del mondo.
Si può osservare altresì una certa convergenza verso una nuova domanda di “integrazione civica” come mostra l’accordo del 2004 del Consiglio Europeo sui “principi basilari comuni” (Consiglio UE, 2004). Agli immigrati neo-arrivati è richiesto di frequentare corsi specifici per imparare la lingua nazionale, di acquisire una conoscenza basilare di costituzioni, leggi e vicende storiche dei paesi di destinazione, di dichiarare esplicitamente di accettare le regole delle democrazie liberali, di mostrare lealtà nei confronti del paese in cui chiedono di stabilirsi. L’integrazione è ora concepita più come un compito degli immigrati stessi, che come una missione delle istituzioni pubbliche. Accordi specifici, come il “contratto d’integrazione” in Francia e in Italia, mirano a conferire una veste contrattuale a questo complesso di obblighi.
Un altro aspetto dell’integrazione civica riguarda l’incitamento all’autosufficienza economica: gli Stati si propongono come compito principale quello di rendere gli immigrati più indipendenti dagli Stati stessi (Joppke, 2007).
La convergenza delle politiche dell’UE verso l’integrazione civica ha però un contrappunto più liberale: l’accordo del 2004 stabilisce anche l’impegno nei confronti dell’uguaglianza di trattamento e della non discriminazione, non solo per i cittadini dei paesi membri dell’UE, ma anche per gli immigrati extracomunitari. In sintesi, l’integrazione civica e le misure anti-discriminatorie sono oggi i due pilastri delle politiche dell’UE per l’integrazione degli immigrati (Joppke, 2016).
I conflitti degli ultimi anni hanno provocato la fuga di milioni di persone in cerca di asilo. Essendo inoltre l’asilo pressoché l’unica porta di accesso legale al territorio dell’UE dal Sud del mondo, anche i flussi definiti “misti” si traducono in domande di protezione internazionale.
I naufragi e la perdita di vite umane nel Mediterraneo, probabilmente il mare più attraversato e sorvegliato al mondo, hanno ripetutamente scioccato le opinioni pubbliche europee. I timori di invasioni e le minacce terroristiche hanno però prevalso nel tempo, rafforzando la richiesta di chiusure e respingimenti.
Per inquadrare la questione, va ricordato che in realtà, secondo i dati prodotti dall’UNHCR (2021) l’85% delle persone in cerca di asilo al di fuori dei propri confini (circa 34 milioni su 82,4 milioni complessivi di rifugiati nel 2021, essendo la maggioranza sfollati interni nel proprio paese) trova accoglienza in paesi del Terzo mondo. Soltanto il 10% è arrivato nell’UE. L’unico paese europeo che compare tra i primi dieci paesi di accoglienza di rifugiati è la Germania.
La percezione dell’opinione pubblica e dei mass-media è però un’altra, e la politica si deve misurare con questa. Come è noto, il pilastro delle politiche dell’UE sull’asilo è rappresentato dalle convenzioni di Dublino, in cui si prevede che il primo paese d’ingresso dei richiedenti asilo debba identificarli, assisterli e valutare la loro istanza di protezione internazionale. Più determinante però è la strategia dell’esternalizzazione dei confini e della prevenzione non solo del traffico di esseri umani e dell’immigrazione non autorizzata, ma degli arrivi di persone che potrebbero chiedere asilo nell’UE. Di qui gli accordi con Turchia, Libia, Niger, indipendentemente dall’impegno di questi paesi a garantire adeguata protezione ai rifugiati e rispetto dei diritti umani.
Se il successo si misura in termini di volume di arrivi, indubbiamente questa strategia per ora si è dimostrata efficace: le richieste d’asilo sono crollate, da 1.200.000 nel 2015 a 400.000 nel 2020. È la dimostrazione tra l’altro che non era in atto nessuna invasione, se è stato così facile bloccarla. Se i criteri si allargano alla protezione dei diritti umani, il bilancio diventa invece più fosco.
Va ribadito che gli immigrati sono una popolazione sempre più composita, tanto che parlare di immigrati e di politiche migratorie in termini generali risulta fuorviante. È vero comunque che le questioni riconducibili all’immigrazione si sono rivelate negli ultimi anni tra le più controverse. Hanno anzi avuto un peso non indifferente nella scelta traumatica della Brexit.
In termini sintetici, l’UE nei prossimi anni sarà chiamata ad assumere scelte politiche impegnative su tre tematiche. La prima è quella delle condizioni di ingresso, con particolare riferimento all’immigrazione per lavoro. Acquisita l’accoglienza positiva per gli immigrati qualificati e almeno in parte per altre categorie come gli studenti, la questione più rilevante riguarda l’apertura di nuove possibilità di accesso per lavoratori meno qualificati. La Germania sta ora cautamente aprendo alla possibilità d’ingresso per lavoratori con qualifiche intermedie.
La seconda tematica riguarda l’integrazione degli immigrati insediati sul territorio dell’UE. Un’Unione Europea più integrata e socialmente coesa non potrà evitare di porsi questioni come quelle di una maggiore armonizzazione dei criteri di accesso alla cittadinanza e al voto locale, soprattutto nei riguardi delle seconde generazioni di origine immigrata (Ambrosini 2020b).
La terza grande arena di discussione concerne la questione dell’asilo e coinvolge la solidarietà interna all’UE. Le convenzioni di Dublino sono da tempo in discussione, e la soluzione dell’esternalizzazione dei controlli e degli obblighi di accoglienza non risponde agli standard di civiltà giuridica che l’UE rivendica con orgoglio. L’idea della flessibilità nell’attuazione dei principi di solidarietà e di tutela dei diritti umani sostenuta dai paesi del gruppo di Visegrad (ma in modo più opaco anche da altri) sta ingenerando un paradosso potenzialmente distruttivo per il progetto europeo: siamo in presenza di un’Unione rigidissima in materia di regole economiche, dalle banche alle quote latte, ma molto elastica e in fin dei conti pressoché silente quando sono in gioco diritti umani fondamentali.