Che ruolo può avere la memoria delle principali tragedie del Novecento - e dei grandi eventi storici che le hanno permesse - nella costruzione di un’educazione “civile” delle giovani generazioni? Le scelte fatte anche in sede governativa con la reintroduzione dell’educazione civica, sia pure diversamente formulata rispetto al passato, pongono con consapevolezza la questione, ritenendo che la storia di per sé, nel suo insegnamento tradizionale, non sia sufficiente, come quello di altre discipline. In effetti una “educazione civica” di tipo nuovo potrebbe costituire un importante punto d’incontro tra storia e memoria, le cui vicende rispettive si sono negli ultimi trent’anni divaricate e spesso contrapposte.
All’epoca della creazione degli stati nazionali (pensiamo al nostro Risorgimento) si è fatta coincidere la storia con la memoria eroica dei vincitori, degli attori del processo di unificazione nazionale, per costruire un tessuto comune razionale-emotivo capace di «fare gli italiani». Lo stesso si è fatto in occasione della loro ricostruzione istituzionale (al termine della Seconda guerra mondiale: in quasi tutti i paesi d’Europa, in Giappone, nei paesi comunisti del blocco sovietico, ricostruiti nel 1945-47 e poi ancora nell’89), anche se con esiti differenziati e con modalità diverse. Una ipotesi su cui lavorare è che dove più forte fu, nella fase postbellica, la condivisa adesione alle nuove costituzioni democratiche, più facile è stato in seguito permettere a storia e memoria di separarsi nuovamente e percorrere la strada che compete a ognuna di loro. Dove l’identità costituzionale è stata più debole (perché vista come sovrapposta o vissuta attraverso ideologie subnazionali per quanto si presentassero come universali nell’ispirazione) la permanenza di un intreccio e commistione tra storia e memoria è proseguita più a lungo e ha favorito una contrapposizione polemica e una strumentalizzazione politica di questo nodo. Non è un caso che l’identità costituzionale forte - si pensi al caso della Germania - sia stata raggiunta dalla generazione nata con la fine della guerra, in contrapposizione aperta alla contraddittoria identità dei padri.
Alla memoria storica degli stati, soprattutto se si tratta di democrazie, non serve la menzogna o il racconto contrario alla verità: è sufficiente una selezione che racconti solo alcuni eventi e ne rimuova altri, che sottolinei alcuni aspetti e ne dimentichi altri, che faccia coincidere il punto di vista nazionale con la verità storica pura e semplice. La storia, quando si presenta come una memoria storica nazionale, come una narrazione storica ufficiale o quasi, tende in genere non a essere falsa, ma a impedire una conoscenza approfondita, a evitare di analizzare contraddizioni, elementi negativi, aspetti dubbi e ambigui, punti di vista che sono quelli degli altri. Questo, per quanto riguarda l’Italia, è certamente successo nell’immediato dopoguerra, proprio nel momento in cui veniva scritta e poi promulgata la Costituzione. In questo caso a venire penalizzata è stata senz’altro la memoria del fascismo, che è stata per lunghi decenni di fatto espulsa dalla riflessione della storia e della memoria collettiva, ma anche la storia della Resistenza, che si è appiattita in modo retorico come momento eroico e unitario che ha permesso proprio a quella Costituzione di poter essere proposta e approvata.
La memoria del fascismo, per gran parte delle generazioni nate durante la guerra o subito dopo, è stata legata soprattutto al racconto letterario e cinematografico - i romanzi di Pratolini, Bassani, Gadda, Chiara, Morante e i film di Salce, Zampa, Risi, Bertolucci, Scola - o alle sei puntate della bella trasmissione televisiva Nascita di una dittatura, di Sergio Zavoli, del 1972. È proprio negli anni settanta, infatti, che il fascismo torna in qualche modo d’attualità: nel dibattito storiografico che diventa anche pubblico e mediatico a partire dal quarto volume della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice - che suscita vaste polemiche e accuse di «afascismo» e «qualunquismo», mentre i primi volumi, a partire dal 1965, erano rimasti in ambito accademico - e della sua Intervista sul fascismo del 1975, ma anche attorno ad alcune grandi mostre sul tema della «modernità» del fascismo e della «modernizzazione» impressa dalla sua politica. Esse hanno spinto a polemiche in cui la confusione tra un giudizio morale e uno economico rispecchiava l’approccio ancora fortemente ideologico e politico con cui si poteva discutere in Italia del passato fascista. Se poi si considera, ad esempio, che l’Italia ha riconosciuto l’uso dei gas tossici e proibiti da parte dell’esercito fascista nella campagna d’Etiopia solamente nel 1996, a sessant’anni dall’evento e dopo cinquant’anni di regime democratico e repubblicano, si capisce come ancora recentemente il fascismo costituisca una sorta di tabù.
Per quanto riguarda un altro capitolo terribile - e forse anche peggiore da certi punti di vista - del colonialismo italiano durante il fascismo, anche se oggetto di studi che sono rimasti sconosciuti al pubblico e dimenticati in genere dai media, è stato solamente grazie al secondo volume del romanzo di Antonio Scurati, M. L’uomo della provvidenza (Bompiani, 2020; il primo fu M. Il figlio del secolo, 2018) che si è potuto leggere distesamente dei crimini commessi in Cirenaica dall’esercito italiano tra il 1929 e il 1932.
Oggi grazie anche alla enorme disponibilità su Internet di materiali, documenti, archivi, testimonianze è molto più concreta la possibilità di trovare agilmente e facilmente quanto possa servire a una ricostruzione al tempo stesso fondata sui fatti e sulle evidenze storiografiche ma anche su valutazioni equilibrate e coerenti, capaci di sfuggire alla dicotomia della condanna o dell’assoluzione per muoversi nella direzione della comprensione e spiegazione del fenomeno storico. È anche vero tuttavia che la Rete è diventata il luogo privilegiato della fake history, di memorie costruite e falsificate a fini di negazionismo, complottismo e messa in discussione dei risultati della più matura storiografia, in una logica di relativizzazione delle memorie e della verità storica che può, ovviamente, trovare terreno fertile anche tra gli studenti.
Accanto a quella del fascismo vi è un’altra memoria che, in Italia ma non solo, conosce una perdurante difficoltà a venire affrontata e dibattuta con la maturità che richiederebbe, quella del comunismo. La polemica succeduta alla risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa» ha mostrato nuovamente la difficoltà, soprattutto della sinistra, a prendere in considerazione cosa sia stato il comunismo «storico», che non si può certo identificare con la vita dei partiti comunisti all’opposizione nelle società democratiche ma va analizzato e discusso soprattutto per quello che ha rappresentato dove è stato al potere per decenni. L’accusa al documento europeo - francamente inventata - di «equiparazione» tra nazismo e comunismo mostrava di non cogliere lo sforzo di offrire una «memoria europea» anche ai paesi dell’Est entrati solo recentemente nell’Europa unita e vissuti per lunghi decenni sotto regimi comunisti; ma anche la sopravvivenza dell’idea che il comunismo, anche se ha commesso dei crimini (che si condannano, ovviamente), ha una giustificazione storica, morale e politica, che il nazismo invece non ha e non potrà mai avere. Proprio per questo, quindi, più per motivi morali e politici che storici, nazismo e comunismo sarebbe bene non compararli: altrimenti ci dimentichiamo (l’hanno scritto in centinaia in quei giorni) dei venti milioni di morti di russi. Come se il ricordo dei milioni morti nel Gulag - per alcuni addirittura una realtà identica a quella delle fabbriche durante la rivoluzione industriale - si dovesse un po’ ammorbidire o minimizzare per via dei venti milioni morti nella guerra.
In Italia, come è ovvio e ben noto, il comunismo è stato soprattutto il Partito comunista, la cui adesione alla democrazia e alla Costituzione - cui ha dato un grande contributo proprio tra il 1943 e il 1948 - ha teso a far dimenticare o minimizzare la realtà del comunismo globale nel secondo dopoguerra e dei regimi esistenti in Urss e Cina. Questa ferita di conoscenza e di consapevolezza - a verificare la quale basterebbe vedere quanto poco sono letti i romanzi e le memorie che riguardano il mondo comunista e le sue vittime - deve poter trovare una risposta non solo sul terreno dell’insegnamento della storia, ma anche della coscienza civile, soprattutto in un mondo che, sempre più globale, non può sottrarsi a una visione ampia e internazionale dei fatti storici, senza rinchiudersi in un impossibile piccolo orticello nazionale.
Quest’anno il Giorno della Memoria ha luogo in un momento in cui sono riprese polemiche sul modo «estensivo» e al tempo stesso «inclusivo» con cui molte associazioni e molti insegnanti vi hanno visto l’occasione per poter parlare di molteplici esperienze, oltre alla Shoah, affrontando in forma comparata un’analisi dei genocidi del XX secolo o di quelli che stanno avvenendo in questo secolo. Le polemiche contro la «universalizzazione» della Shoah dimenticano, innanzitutto, il suo ruolo anche nell’aver permesso di inventare il termine “genocidio” e innovare profondamente il diritto internazionale a partire dal dopoguerra, riducendola a un fatto interno sostanzialmente al mondo ebraico verso cui il mondo intero dovrebbe inchinarsi riconoscendone l’unicità e, in qualche modo, la sacralità. Si sostiene che l’universalizzazione della Shoah e delle sue vittime sia pericolosa perché le priverebbe della loro identità, riducendole a vittime generiche, e che sarebbe una tendenza insidiosa perché le spersonalizza. La spersonalizzazione delle vittime dei genocidi - di tutti i genocidi - consiste piuttosto nel togliere a un gruppo non la propria identità, ma la propria umanità, che non viene riconosciuta perché quella identità la si vuole estirpare e distruggere, perché la si considera capace di avvelenare e degenerare. È l’atto del carnefice, del responsabile, del perpetratore dei genocidi che va prima di tutto combattuto, condannato e fermato: perché è un atto disumano che colpendo un gruppo nella sua identità colpisce l’intera umanità, che è formata e si è costituita nei millenni con tante diverse identità, le quali non mettono e non possono mettere in discussione l’umanità di ognuno, di ogni persona.
La possibilità di utilizzare il Giorno della Memoria per una riflessione che abbracci altri genocidi, oltre alla Shoah, può consentire di mettere a fuoco le dinamiche che hanno portato ai genocidi e cogliere quindi quei primi «early warnings», come li chiama il Sistema di prevenzione delle Nazioni Unite, tra cui primeggiano l’incitamento all’odio e la discriminazione razziale.