Sulla base delle scoperte negli ultimi vent’anni, lo scopo principale del presente saggio è quello di dimostrare attraverso esempi concreti, mutuati dall’evidenza delle recenti indagini archeologiche, l’importanza della sedentarietà pre-agricola quale elemento determinante nel progressivo passaggio all’adozione di forme di sfruttamento intensivo del territorio, di cui agricoltura e allevamento sono quelle più emblematiche. Inoltre si evidenziano qui anche i fattori contingenti, legati alle modalità di sviluppo dei singoli ecosistemi.

Vivere insieme: la nascita della domus pre-agricola

L’archeologia ha documentato la nascita dei primi insediamenti stabili di cacciatori-raccoglitori nel Levante e nella Palestina, regioni dove le ricerche sono state particolarmente intense negli ultimi trent’anni. Al termine dell’ultima glaciazione, nel periodo Epipaleolitico (ca. 18.000-9300 a.C.) si registra la nascita dei primi villaggi stabili nella cosiddetta mezzaluna fertile − l’area pedemontana che si estende dal Libano allo Zagros iracheno −, una zona dove le piogge sono sufficienti alla nascita spontanea dei cereali selvatici e alla diffusione degli antenati dei nostri animali domestici. È nel corno occidentale di quest’area che fiorisce la cultura natufiana, dal sito eponimo di Wadi el-Natuf in Palestina (Israele), assai estesa in tutta l’area levantina in prossimità dei luoghi in cui l’uomo poteva cacciare e utilizzare le varietà spontanee dei cereali.

Caratterizzati da una serie di comunità stanziali, o talvolta semipermanenti, villaggi natufiani quali el-Wad, Nahal Oren, Beidha e Ain Mallaha, con un’estesione di poco inferiore all’ettaro, hanno una popolazione di 200-300 persone alloggiate in capanne circolari semisotterranee (3-4 metri di diametro) a struttura lignea. La ricostruzione continua nel tempo delle stesse abitazioni prova la presenza di comunità stanziali che risiedevano tutto l’anno nello stesso sito. In Mesopotamia, troviamo villaggi simili nello Zagros iracheno, a Zawi Chemi Shanidar in particolare.

La dieta di tali abitanti è ben evidenziata dai resti della flora e della fauna, nonché dagli attrezzi litici rinvenuti negli scavi. I resti botanici di semi bruciati di orzo selvatico (Hordeum dystichum) e farro piccolo (Triticum monococcum), di ghiande, ceci, lenticchie e piselli, nonché le ossa di animali quali gazzelle, cinghiali, capre e buoi selvatici attestano la persistenza di un’economia di caccia e raccolta in ambito di comunità stanziali.

Ma come si distinguono le varietà selvatiche da quelle domestiche? Le ricerche di archeobotanica e zooarcheologia sono fondamentali al riguardo. Rispetto alle specie domestiche, i cereali selvatici hanno notoriamente una rachide (asse della spiga) estremamente fragile e piccola, mentre le specie di animali selvatici tendono ad avere dimensioni più grandi rispetto ai loro cugini domestici. Solo il cane è in procinto di essere addomesticato, come mostrerebbero, per esempio, i resti di un cucciolo col suo padrone in una sepoltura di Ain Mallaha del 10.000 a.C.

A livello sociale, i villaggi natufiani testimoniano l’inizio di un cambiamento di straordinaria importanza. Determinata da una serie di fattori − tra cui la necessità di ottimizzare la procreazione femminile e l’immagazzinamento delle riserve cerealicole, evitando i continui spostamenti della vita nomadica − la nascita della domus quale centro del vivere civile, opposto alla sfera selvaggia della natura, ha un valore fortemente simbolico. Rende l’uomo stabile, soggetto a relazioni sociali sempre più complesse coi suoi nuovi vicini, e aiuta a esorcizzare la morte e le paure a essa correlate. Queste vengono addomesticate e controllate mediante rituali funerari quali il culto dei teschi, scientemente deposti nelle abitazioni e oggetto di rituali che stimolano la coesione sociale del gruppo.

Una rivoluzione verde: le prime sperimentazioni agricole

Proprio la sedentarietà, la nascita della casa e il vivere a stretto contatto gli uni con gli altri hanno stimolato lo sviluppo di nuovi e più complessi sistemi di interazione sociale, sistemi che richiedevano nuove strategie economiche quali l’introduzione di agricoltura e allevamento per garantire un surplus alimentare. Secondo l’archeologa Barbara Bender, quest’ultimo era necessario a soddisfare il fabbisogno di comunità demograficamente più sviluppate e socialmente più complesse, le quali necessitavano di apparati simbolico-rituali – feste comunitarie, scambio di doni ecc. – per lenire le tensioni tra famiglie residenti in case attigue.

Si tratta di una vera e propria rivoluzione verde: un nuovo modo di guardare a tale innovazione è quello di considerare le piante e gli animali, al pari dell’uomo, come elementi attivi nel processo, attori cui conveniva la domesticazione quale strategia riproduttiva. Mentre il caso ha avuto un ruolo importante nell’introduzione di piante domestiche, avvenuta forse in seguito all’osservazione dei cicli vegetativi naturali e alle loro possibilità riproduttive, la domesticazione di cane, maiale, capra, pecora e bue è certo dovuta a scelte mirate da parte dell’uomo in base alle esperienze della caccia selettiva. Tra queste, prioritaria appare la scelta di addomesticare animali a struttura sociale gerarchica, in modo da sostituirsi al maschio dominante ed acquisire il controllo del gruppo. Per esempio, proprio per la sua natura sociale egualitaria, nonostante svariati tentativi, la gazzella non venne mai addomesticata.

Questi i dati archeologici. Dal quadro generale dei siti natufiani si distinguono due econicchie, gli insediamenti di Abu Hureyra (Siria) e Hallan Çemi (Turchia), dove i recenti scavi hanno messo in luce le primissime forme di sperimentazione agricola e di allevamento. Le analisi di flora e fauna dimostrano che già intorno al 10.000 a.C. sono testimoniate forme assolutamente sperimentali di domesticazione di cereali (segale) e animali selvatici (maiale), le più antiche mai attestate nella storia umana.

È soltanto col Protoneolitico (ca. 9300-8500 a.C.) e col Neolitico Preceramico (ca. 8500-7000 a.C.) che si porta a compimento il processo di addomesticamento di piante e animali nell’ambito di un’economia integrata di caccia-raccolta e agricoltura incipiente. In queste fasi la preminenza dell’area siro-palestinese cede il passo alla regione del nord della Mesopotamia, l’alta valle del Tigri vicino a Eski Mossul e ancora lo Zagros. I dati archeologici relativi ai siti di Qermez Dere, Nemrik, e Tell Maghzaliya (IX-VIII millennio a.C.) testimoniano una complessità sociale crescente e tutte le fasi del progressivo passaggio dalla vita di caccia e raccolta a quella di agricoltura e allevamento.

La società diventa più complessa: con la rivoluzione delle forme architettoniche nasce l’idea di casa che perdura sino ai nostri giorni. Le abitazioni, inizialmente rotonde, diventano infatti rettangolari (Nemrik), suddivise internamente impiegando pilastri in pietra o in tecnica addirittura cementizia, oppure a Tell Maghzaliya si trasformano in ampie strutture a più vani indipendenti (100 mq). L’impiego del tauf (un impasto di argilla e paglia tritata) e del mattone crudo a forma di sigaro introduce tecniche costruttive assai avanzate, antesignane di quelle moderne.

La sussistenza degli abitanti di questi villaggi evidenzia un progressivo passaggio dalla raccolta di vegetali selvatici − cerali, lenticchie e piselli − ad un’agricoltura e un allevamento incipienti. Oltre ai resti vegetali e animali, lo dimostra la presenza di attrezzi litici quali macine, pestelli, asce e falcetti di selce, tutti utili ai nuovi processi tecnici della mietitura e molitura introdotti dall’agricoltura.

In questo periodo, l’insediamento di Göbekli Tepe (Turchia sud-orientale) è un caso esemplare di quella tendenza alla diversificazione culturale e sociale dei singoli ecosistemi. Recenti indagini sul campo hanno evidenziato l’importanza del fattore simbolico-rituale, con il suo apparato di feste e cerimonie comunitarie, quale stimolo primario verso le sperimentazioni agricole. Il sito − un santuario di montagna munito di strutture rituali megalitiche −, del 9000 a.C., era il centro di riunione di comunità di cacciatori-raccoglitori che, al fine di sviluppare tali processi rituali e di coesione sociale, sperimentano forme intensive di sfruttamento del territorio introducendo l’agricoltura. L’esempio è indicativo di come la sedentarietà, con la sua complessità sociale e la iniziale gerarchizzazione, fornisca lo stimolo primario alla nascita dell’agricoltura.

La ceramica, manufatto guida degli archeologi

È col Neolitico Ceramico che l’economia di caccia-raccolta cede definitivamente il passo a quella di agricoltura e allevamento. Non a caso è in questo momento, ricco di nuovi fermenti sociali, che si registra un’altra invenzione capitale nella storia umana: la ceramica.

Nell’area dello Zagros iracheno, il quinto strato abitativo del villaggio di Jarmo, all’inizio del VII millennio a.C., documenta la nascita in Mesopotamia di tale manufatto straordinario, tuttora utilizzato, strettamente legato per la sua estrema fragilità alla vita sedentaria e alle varie necessità funzionali di immagazzinamento di aridi e liquidi, servizio da cucina ecc. Preceduta nelle fasi preceramiche da una serie di recipienti in materiali deperibili (pelle, vimini) più adatti alla vita nomadica, e da vasi di pietra e a impasto di calce, la ceramica si diffonde in maniera capillare in tutti i villaggi neolitici e diventa per gli archeologi il manufatto guida, diagnostico delle varie culture della regione. Sebbene in Mesopotamia siano poco note le prime sperimentazioni produttive di vasi d’argilla indurita e semicotta, l’invenzione della ceramica si deve probabilmente all’osservazione accidentale della cottura dell’argilla dei focolari, e i primi vasi hanno impasto grossolano e sono poco cotti.

Se Jarmo presenta una società agricola ormai pienamente evoluta, con abitazioni complesse a più vani e cortili e una cultura simbolica matura, anche il neolitico ceramico ci mostra stanziamenti peculiari, specializzati in mansioni del tutto precipue ai singoli habitat. Ne è un esempio il sito di Umm Dabaghiya, nel deserto stepposo a ovest del Tigri, dove è stanziata una fiorente comunità specializzata nella caccia intensiva agli onagri (asini selvatici), una caccia su vasta scala di sedentari – ben diversa da quella di sussistenza dei villaggi più antichi –, le cui finalità erano decisamente commerciali. La fabbricazione di vesti, contenitori e strumenti di vario tipo, a seguito della lavorazione dei prodotti della caccia (concia delle pelli), serviva per scambi commerciali coi centri agricoli della regione da cui provenivano le principali sostanze alimentari.

I prodotti di tali attività economiche venivano conservati in magazzini comunitari, piccoli ambienti in tauf allineati su lunghi corridoi, all’interno dei quali sono state anche rinvenute le migliaia di palle di fionda probabilmente utilizzate nella caccia. Le straordinarie pitture parietali ritrovate nelle vicine abitazioni forniscono indicazioni sulle sofisticate tecniche venatorie impiegate, con l’uso di recinti, chiusi da reti fissate a pali lignei, entro i quali si spingevano gli animali. Umm Dabaghiya è un esempio unico nel suo genere della nascita di una incipiente specializzazione dell’uomo nelle varie attività produttive, in un periodo ormai di completa fioritura agricola.

Bibliografia

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