Le trasformazioni della società e della cultura negli ultimi due secoli della storia repubblicana sono state profonde e hanno inciso non poco sulla formazione dell’identità romana e sul grande cambiamento rappresentato dalla nascita del principato augusteo. Negli ultimi decenni il dibattito scientifico ha dato molto spazio ai cambiamenti culturali visibili nella tarda repubblica, concentrandosi su due fenomeni complessi come romanizzazione ed ellenizzazione, entrambi adatti a descrivere, sia pure da punti di vista diversi, il cambiamento in atto. Il primo termine si riferisce alla diffusione del modello romano in Italia e nel resto delle province. Il secondo descrive di per sé la diffusione della cultura greca presso i popoli non greci, con particolare riferimento all’età ellenistica. Viene quindi usato per descrivere anche l’ellenizzazione di Roma, una trasformazione riconosciuta come tale anche dagli stessi romani ed espressa in modo efficace, anche se un po’ semplicistico, dal celebre verso di Orazio (Epistulae, II 1.156): Graecia capta ferum victorem cepit («la Grecia conquistata ha catturato il suo feroce vincitore»).
A romanizzazione ed ellenizzazione, talvolta visti in opposizione tra loro nell’intento di distinguere l’autenticamente romano dall’influsso esterno, sono stati dedicati alcuni importanti saggi che hanno cercato di rivalutare sia l’attitudine romana a selezionare, reinventare e integrare nella propria cultura il modello greco più adatto alle proprie esigenze, sia la simile capacità di sopravvivenza/resistenza delle culture indigene italiche tanto alla romanizzazione quanto all’ellenizzazione. Inoltre, sono stati esaminati a fondo i rapporti tra i due fenomeni: vista l’intensità dell’influenza ellenistica sulla società romana si è infatti osservato come la romanizzazione abbia spesso comportato anche l’ellenizzazione delle popolazioni romanizzate (il modello romano diffuso dal centro verso le province era infatti a sua volta permeato di cultura greca). Il processo è stato allora paragonato – con una metafora efficace – al sistema circolatorio umano, in cui vene e arterie sono servite da canali di trasmissione della cultura greca, che prima era affluita a Roma, «cuore» del sistema, per poi essere «pompata» verso le province, Grecia compresa. Gli studi più recenti hanno inoltre avuto in comune l’ambizione di inserire a pieno titolo nella riflessione storica anche i cambiamenti visibili nella cultura materiale, ossia nell’architettura, nella scultura e nelle immagini, offrendo così un quadro il più possibile interdisciplinare degli argomenti trattati.
Il saggio che ha inciso più profondamente su questo nuovo approccio multidisciplinare è stato sicuramente quello di Paul Zanker dedicato all’età augustea (Augustus und die Macht der Bilder), uscito nel 1987 e tradotto in Italia nel 1989. Il volume ha offerto una lettura nuova dell’ellenizzazione, vista come un fenomeno non solo artistico ed estetico, ma attivo anche in campo politico e sociale. Avendo riconosciuto l’esistenza di un conflitto tra cultura greca e romana a partire dal II secolo a.C., illustrato per esempio dai ritratti che univano con apparente incongruità i corpi nudi degli atleti greci ai volti maturi e scavati dalle rughe degli aristocratici romani, Zanker ha riconosciuto il culmine di questo contrasto nell’età delle guerre civili e il suo superamento nella fondazione del principato da parte di Augusto. L’età augustea aveva portato infatti alla nascita di un nuovo linguaggio delle immagini, che, sebbene destinato a illustrare la propaganda dal princeps, fu abbracciato con convinzione da tutta la società romana, perché sembrò capace di esprimere l’ansia di moralità e di cambiamento di chi intendeva lasciarsi alle spalle i conflitti che avevano dilaniato la società romana nei decenni precedenti. La mitologia della nuova e pacifica età dell’oro che Augusto proclamava di aver ristabilito nel Lazio costituiva insieme il fondamento e la ragione stessa del successo del nuovo linguaggio. Zanker è stato abile a mostrare quanto profondamente i temi della propaganda pubblica augustea siano penetrati anche nei monumenti privati, esprimendo così la piena adesione della società al messaggio del princeps. Nel suo lavoro Zanker non ha mai messo in discussione la profonda ellenizzazione di Roma, ma ha semmai osservato che il successo della formula augustea risiedeva nel cambiamento del modello greco di riferimento, che non era più, come negli anni sanguinosi delle guerre civili, il linguaggio barocco, patetico e “irritante” dell’ellenismo, ma quello retrospettivo e misurato del classicismo, ispirato alla Grecia del V e del IV secolo a.C. In sostanza, Augusto e il suo entourage avrebbero scelto, probabilmente per ragioni politiche e propagandistiche (la battaglia di Azio fu presentata come una nuova Salamina), un nuovo e più gradito modello greco, ossia il glorioso passato della Grecia classica.
Negli anni seguenti altri studi hanno proseguito nell’esame dei temi evidenziati da Zanker, cercando spesso di smorzare il contrasto tra l’età delle guerre civili e l’età augustea. Karl Galinsky, nel suo Augustan Culture (1996), ha offerto un quadro più ampio e specifico dell’età augustea, allargando il campo di indagine anche ad aspetti lasciati in secondo piano da Zanker, come la letteratura. Eric Gruen, in Culture and National Identity in Republican Rome (1992), ha invece esaminato nel dettaglio, sebbene con una certa tendenza a sottovalutare le testimonianze di opposizione alla cultura greca, l’ellenizzazione di Roma, evidenziando con nuovi argomenti la grande ricettività dell’aristocrazia romana e offrendo un quadro esauriente dei diversi campi in cui essa si manifestò. Ramsay MacMullen, nel suo Romanization in the Time of Augustus (2000), ha preso in considerazione la prima fase di trasformazione dell’impero, concentrandosi su quattro «macroregioni» (Oriente, Spagna, Gallia e Africa) e rifiutando di riconoscere ad Augusto la volontà di «romanizzare» le nuove province, ma insistendo piuttosto sulla continuità del fenomeno tra l’età delle guerre civili e l’età propriamente augustea, proprio là dove Zanker aveva tracciato una decisa barriera. A suo parere, se l’impero si romanizzò fu per il desiderio di farlo dei suoi sudditi, senza che vi fosse una gestione centralizzata del fenomeno. Il processo di definizione dell’identità romana in Italia è stato al centro delle riflessioni di Emma Dench, espresse prima in un saggio innovativo, ma dalla prospettiva geograficamente limitata, From Barbarians to New Men. Greek, Roman, and modern Perceptions of Peoples in Central Appennines (1995), e poi ampliate a tutto il mondo romano in Romulus’ Asylum: Roman Identities from the Age of Alexander to the Age of Hadrian (2005). In quest’ultimo volume la studiosa ha sottolineato l’apertura della società romana e la convinzione che incorporare e “romanizzare” nuovi popoli e culture fosse parte della sua identità. Emma Dench riconosce già nella leggenda romulea l’apertura all’integrazione che si manifesterà nelle politiche di estensione della cittadinanza attuate nel corso della storia repubblicana e imperiale.
Il saggio più innovativo è stato però Rome’s cultural Revolution di Andrew Wallace Hadrill (2008), che nel titolo cita esplicitamente uno storico saggio di Ronald Syme, ossia The Roman Revolution (1939). La rivoluzione di cui si è interessato Wallace Hadrill non è politica, ma culturale, e riguarda ancora una volta il momento di passaggio tra repubblica e principato, quando la trasformazione in corso dell’identità romana aiutò Augusto a costruire un nuovo sistema politico ai danni dell’antica classe dirigente repubblicana. Lo studioso inglese ha impostato il suo lavoro sul superamento dell’idea di un contrasto tra romanizzazione ed ellenizzazione, osservando che spesso la scelta di uno dei due termini per descrivere la storia degli ultimi due secoli della repubblica è stata determinata dai diversi approcci degli studiosi. Dal punto di vista di uno storico o di un archeologo impegnato nello studio della conquista romana dell’Italia era più proficuo parlare di romanizzazione, visto che l’esito del cambiamento fu la nascita di un’Italia romana, mentre dal punto di vista di uno storico dell’arte era l’ellenizzazione a imporsi come il fenomeno più rilevante. In realtà i due processi dipendono l’uno dall’altro, come si può osservare nella diffusione nell’Italia del II e del I secolo a.C. di forme artistiche, architettoniche e urbanistiche ellenistiche. Si tratta di un chiaro segno di ellenizzazione che non sarebbe però avvenuto con la stessa forza e rapidità senza la conquista romana e senza, per esempio, l’estensione della rete stradale romana alla penisola, frutto della sua romanizzazione (e dell’applicazione di conquiste tecnologiche ellenistiche). Ellenizzazione e romanizzazione sono allora processi che interagiscono fino al punto da rendere artificioso ogni tentativo di separarli. Secondo Wallace Hadrill, piuttosto che utilizzare i concetti di ellenizzazione e romanizzazione, bisognerebbe considerare più semplicemente quella degli ultimi due secoli della repubblica come una società bilingue (se non multilingue), in cui era normale (soprattutto per l’aristocrazia, ma non solo) usare romanità e grecità come se fossero due linguaggi o codici diversi da adattare alle circostanze e ai contesti nei quali si agiva. In linea di massima, la lingua “romana” prevaleva nella sfera pubblica, ossia in quella del negotium, mentre quella greca vinceva spesso nel mondo privato dell’otium, anche se non era sempre così.
Questa facilità di passaggio da un “codice” all’altro, paragonabile letteralmente a un cambio di abito, si manifestava, per esempio, nell’adozione di un diverso dress-code, romano o greco, a seconda delle situazioni. Quale abbigliamento fosse adatto a un cittadino fu infatti un argomento molto frequente di dibattito pubblico tra III e I secolo a.C., dibattito che portò alla definitiva individuazione della toga quale veste romana per eccellenza (quando, durante le guerre mitridatiche, vi furono eccidi di mercanti italici e romani in Oriente, indossare o no la toga poteva significare morte o salvezza) e del pallium (un tipo di mantello) quale costume tipico dei greci. Si noti però che questa antitesi, che a Roma era talmente radicata da essere usata anche per distinguere le opere teatrali di soggetto romano da quelle di argomento greco (fabula togata si contrapponeva a fabula palliata), non era condivisa in Grecia, dove la nozione di grecità era affidata semmai alla lingua e ai comportamenti sociali (nomoi) e non alle vesti. Per i romani il costume (habitus) era invece un elemento molto importante dell’identità di un popolo e quindi anche un modo efficace di definire la propria identità in contrasto con quella greca. L’opposizione tra toga e pallium forniva così un esempio di alterità di comportamento che poteva essere adottata anche da un romano. Se infatti la toga, in quanto veste romana, era comunque riservata alle occasioni pubbliche e ai ritratti onorari, il pallium non fu affatto evitato dai cittadini romani. Anzi esso era spesso indossato nei momenti privati e conviviali da chi in quel momento non esercitava più il suo mestiere di cittadino ed era quindi libero di presentarsi diversamente, ossia come un “greco”.
Il fatto che i greci non avessero mai attribuito al pallium molta importanza come parte integrante della propria cultura dimostra anche che la grecità esibita dai romani era spesso il risultato di una ricostruzione artificiosa del modello greco, di cui un cittadino romano poteva quindi appropriarsi, senza vedere veramente messa in discussione la propria identità culturale. Si pensi anche all’architettura domestica romana del II secolo a.C., quando nelle ville e nelle case comparvero sempre più spesso grandi peristili di tradizione ellenistica a imitazione dei ginnasi greci: essi non accolsero mai atleti impegnati negli allenamenti o filosofi a passeggio, ma le copie delle statue greche di celebri atleti e filosofi. L’élite romano-italica, affascinata dal prestigio della cultura greca, aveva così ricreato un’idea di grecità compatibile con la propria cultura.
Il modello del bilinguismo culturale consente quindi di comprendere meglio la natura della rivoluzione romana, presentata da Wallace Hadrill come il risultato di tre fenomeni concorrenti tra loro, ma connessi al grande tema del rapporto tra cultura greca e romana.
La “romanizzazione” della penisola viene spiegata come effetto di una sorta di triangolazione tra l’identità romana, quella locale della popolazione di appartenenza e quella (culturale) greca. Questa situazione si coglie per esempio molto bene a Pompei, che nel II secolo a.C. era ancora una città “sannitica”, dove la lingua ufficiale era l’osco, ma anche un centro profondamente ellenizzato nella cultura artistica, le cui forme seguivano però a loro volta un modello romano. E lo stesso avveniva nei grandi santuari latini (Praneste) o sannitici (Pietrabbondante) che presentavano caratteristiche non completamente greche o romane, perché frutto di un’ibridazione di culture diverse, comprendenti anche quella indigena. Un’analoga triangolazione tra più culture si coglie anche nel resto dell’Italia romana, sebbene declinata diversamente a seconda dell’identità locale (etrusca, umbra, picena ecc.) che interagiva con quella romana e con la grecità.
Un altro aspetto, che fu molto importante per i suoi effetti politici, fu la ricostruzione nel I secolo a.C. di una tradizione romana contrapposta, in parte artificiosamente, a quella greca, come si è visto nel caso dell’antitesi tra toga e pallium. Gli intellettuali romani, consapevoli della propria “ellenizzazione”, cercarono infatti di definire meglio la propria cultura e furono soprattutto personalità come Vitruvio, Varrone e Cicerone a forgiare da punti di vista differenti una nuova idea di romanità, identificandola a seconda dei propri interessi con l’architettura propriamente romana (Vitruvio, che cercò però sempre di conciliare la pratica romana con la teoria greca), con una nuova particolareggiata ricostruzione del passato della città (Varrone) o ancora con una ridefinizione del mos maiorum (Cicerone, influenzato dalla filosofia greca). Questo processo costituì un’importante novità “politica”, perché sottrasse di fatto all’aristocrazia repubblicana il suo tradizionale monopolio sulla ricostruzione del passato di Roma e sulla determinazione di ciò che era autenticamente romano, preparando così la condizione del cambiamento politico impersonato da Augusto. Il princeps poté infatti presentarsi come colui che avrebbe fatto ricostruire Roma secondo una tradizione romana, avrebbe ristabilito gli antichi costumi romani dimenticati negli anni della crisi della repubblica e avrebbe riportato in auge il glorioso passato della città, appena ricomposto (e ricreato) da storici antiquari come Varrone.
Il terzo aspetto riguarda gli effetti materiali della cosiddetta ellenizzazione, ossia una vera e propria rivoluzione dei consumi, che iniziò nel II secolo a.C. e portò, anche grazie alle conquiste orientali, alla diffusione in Italia di nuovi bisogni e oggetti. Arredi marmorei, preziose argenterie, spesso figurate, vetri, vasi, candelabri e incensieri in bronzo e in marmo, i set tricliniari, formati da letto, cratere metallico e credenza, copie di statue greche iniziarono a essere prodotti appositamente per il mercato romano-italico, divenendo così parte integrante della vita delle élites che videro in essi un vero e proprio status symbol. Furono, in particolare, i ceti emergenti a cercare di scardinare, esibendo la propria ricchezza, il precedente ordinamento sociale, mentre la parte più tradizionale dell’aristocrazia tendeva invece a difenderlo, condannando l’importazione degli oggetti di lusso dal mondo greco in quanto frutto di luxuria e fonte di un pericoloso degrado morale. Lo sfoggio del lusso nel II secolo a.C., soprattutto da parte delle aristocrazie italiche (cfr. Pompei), ansiose di ricevere la cittadinanza romana, documenta quanto l’investimento in questi oggetti fosse legato anche all’ambizione di dimostrare di essere alla pari con l’élite romana almeno nel gusto e nella capacità di spesa. In effetti, una parziale risposta a questa crisi fu proprio l’estensione della cittadinanza successiva alla guerra sociale.
La convergenza di questi tre aspetti portò, secondo Wallace Hadrill, alla rivoluzione culturale, che non fu però una trasformazione della società avvenuta in un momento specifico, ossia in età augustea, come sosteneva Zanker, ma l’esito di un processo di lunga durata, iniziato da almeno due secoli e concluso semmai solo da un passaggio di poteri dall’aristocrazia gentilizia ad Augusto. Questo passaggio di poteri non fu solo un’importante novità politica e istituzionale, ma anche l’effetto sulla politica dei mutamenti in corso da tempo nella cultura materiale e nello stile di vita delle élites romane e italiche.
E. Dench, From Barbarians to New Men. Greek, Roman, and modern Perceptions of Peoples in Central Appennines (Oxford, 1995).
E. Dench, Romulus’ asylum: Roman Identities from the Age of Alexander to the Age of Hadrian (Oxford, 2005).
K. Galinsky, Augustan Culture (Princeton, 1996).
R. MacMullen, Romanization in the Time of Augustus (New Haven, 2000).
A.J.S. Spawforth, Greece and the Augustan Cultural Revolution. Greek Culture in the Roman World (Cambridge, New York 2012).
A. Wallace Hadrill, Rome’s cultural Revolution (Cambridge, 2008).
P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini (Torino, 1989).