Il lavoro ha un’importanza centrale nella società contemporanea, ben esemplificata dalle parole della Costituzione italiana che all’articolo 1 recita: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Una centralità che non fatichiamo a comprendere e che, anzi, fa pienamente parte di noi: l’attività lavorativa, infatti, garantisce benessere e mezzi di sopravvivenza all’individuo che la svolge, definisce la persona all’interno del consesso sociale, contribuisce in maniera determinante alla sua realizzazione personale, gli fornisce status sociale e prestigio. L’uomo moderno è, quindi, prima di ogni altra cosa, un laborator, un “uomo del lavoro”. Una definizione che segna immediatamente la distanza tra noi e l’epoca medievale, che ha nutrito a lungo un sostanziale disprezzo nei confronti del lavoro, in particolare del lavoro manuale, e di chi lo esercitava.
Vediamo ora di comprendere in che modo l’uomo del Medioevo considerava il lavoro. La concezione del lavoro in età altomedievale affondava le sue radici in un triplice substrato culturale formatosi sul retaggio della tradizione classica, degli insegnamenti biblici e della mentalità delle popolazioni germaniche che diedero vita ai primi regni romano-barbarici. La cultura classica nutriva un radicato spregio per l’attività manuale: il lavoro era concepito come un’occupazione funzionale a rispondere alle esigenze più basse dell’uomo e distoglieva dall’otium, condizione necessaria per svolgere al meglio le attività intellettuali e perseguire l’impegno politico; per questo il lavoro manuale era prerogativa esclusiva di servi e schiavi.
Ancora più radicale era la visione del lavoro presso le società barbariche, all’interno delle quali, così come descrive Tacito nel De Germania, le uniche occupazioni considerate degne di un uomo erano la guerra e la conquista di un bottino, mentre il lavoro manuale, ossia il coltivare la terra, era visto come un’attività esclusiva dei servi, uomini vigliacchi e inetti che «ottengono con il sudore ciò che possono avere con il sangue».1
Il lavoro era quindi considerato come un’attività forzata che svilisce l’uomo. Esso rappresentava, già nella cultura biblica, la condanna del Creatore per la disubbidienza di Adamo nel Paradiso terrestre: dopo la Caduta, il destino dell’uomo è la fatica – «con il sudore del tuo volto mangerai il pane»2 recita il Libro della Genesi – e nel collegare il lavoro al peccato si dà una sorta di legittimazione alla schiavitù. Nel contempo, però, associato alla colpa originaria, il lavoro assume anche un carattere di inevitabilità, è una fatica necessaria intrinseca alla condizione umana, che può diventare strumento di purificazione e penitenza, quindi mezzo di riscatto e salvezza. Quest’ambivalenza nella visione del lavoro – connaturato all’uomo, elemento sia di dannazione sia di elevazione – permeò il sentire dell’intero periodo medievale, seppur con un’alterna preponderanza dei due diversi fattori, così come ha sintetizzato Jacques Le Goff: «una visione pessimistica dell’uomo, debole, vizioso, umiliato davanti a Dio, è presente per tutta la durata del Medioevo, ma è più accentuata durante l’Alto Medioevo dal IV al X secolo – e ancor più nei secoli XI e XII – mentre l’immagine ottimistica dell’uomo, riflesso dell’immagine divina capace di continuare sulla terra la creazione e di salvarsi, tende a prendere il sopravvento a partire dai secoli XII e XIII».3
Con la caduta dell’Impero romano e la decadenza che caratterizzò i primi secoli del Medioevo, la tecnologia fece numerosi passi indietro e il lavoro manuale coincise essenzialmente con l’attività rurale. Le condizioni di vita dei contadini erano particolarmente dure: l’agricoltura, praticata per lo più da persone in condizione servile, era davvero l’attività di Caino, maledetta da Dio. I lavoratori rappresentavano l’ampia base di una piramide sociale ai cui vertici non vi erano i ricchi bensì i potenti: il potere era dato dalla vastità delle terre controllate e dal numero di persone poste al proprio servizio.
In una società feudale rigidamente organizzata in tre ordini – così come stigmatizzati da Adalberone di Laon nell’XI secolo4 – erano i contadini a rappresentare la stragrande maggioranza della popolazione, dalla cui attività dipendeva la sopravvivenza stessa di nobili ed ecclesiastici: «ricchezze e vesti sono fornite a tutti dal lavoro dei contadini e nessun uomo libero potrebbe vivere senza di loro».5 La distanza tra gli uomini liberi e i lavoratori è proprio nell’assoggettamento di questi ultimi non necessariamente a un signore, quanto al labor stesso, ossia alla fatica che li abbruttisce.
La stessa regola alla base della vita comune dei monaci benedettini, conosciuta dai più proprio con l’espressione “Ora et labora”, così come prescritto dal fondatore Benedetto da Norcia nel VI secolo, non poneva attività contemplativa e manuale sullo stesso piano, ma presentava il lavoro come strumento di penitenza e mortificazione che, integrato in una vita ascetica, dedita alla preghiera, potesse stemperare l’orgoglio umano e costituire una forma di ascesi in grado di condurre l’uomo verso la salvezza.
Mentre aristocratici ed ecclesiastici vivevano di rendita, ancora a lungo nel corso del Medioevo, almeno fino all’anno Mille, la schiavitù fu la fonte principale della forza lavoro rurale. A differenza dei grandi latifondi di epoca romana, l’economia agricola medievale si riorganizzò attraverso le curtis, aziende agrarie che gestivano ampie porzioni di terreno, proprietà di un dominus, ossia un signore che poteva essere un ente ecclesiastico, un potente laico o il re stesso, prerogativa del quale era, di fatto, il mantenimento dello status quo. In questi centri economici e sociali del territorio rurale, le terre erano coltivate dai servi: la riserva padronale era curata dai prebendari, servi il cui unico compenso era la prebenda, ossia il cibo per il sostentamento. Piccoli appezzamenti erano invece affidati ai massari: questi potevano essere contadini liberi, che si ponevano sotto la protezione del signore e gli corrispondevano un canone, o servi casati, legati per tutta la vita alla terra che coltivavano, ricompensati per il loro lavoro con una quota del raccolto.
Dall’XI secolo, i contadini iniziarono a potersi affrancare dalla condizione servile cui erano vincolati: il pagamento di un riscatto garantiva loro maggior libertà nei confronti del signore, verso il quale mantenevano solo gli obblighi di corvées e di pagamento del canone. A cambiare non fu però solo la condizione giuridica dei servi: vi fu anche una progressiva professionalizzazione del lavoro.
Se nei primi secoli dell’Alto Medioevo il contadino doveva essere in grado di svolgere innumerevoli diverse mansioni – dalla cura dei campi, alla realizzazione e manutenzione di attrezzi, cesti e vasellame, alla filatura e al rattoppo degli abiti – sempre più si sviluppò una specializzazione nelle attività artigianali che si insediarono negli agglomerati urbani, permettendo una maggior mobilità sociale.
Abbandonando il mondo rurale e spostandosi verso quello cittadino, che iniziò a rifiorire dal XII secolo, è possibile riscontrare una trasformazione ancor più rapida nella concezione del lavoro.Se in ambito urbano rimase il disprezzo verso il villano, il contadino rozzo e ignorante che coltivava la terra – protagonista di numerose novelle satiriche trecentesche –, il lavoro artigiano acquisì nel tempo valore come possibilità di accesso a libertà e benessere economico.
La chiesa giocò un ruolo cardine nella promozione di questa nuova organizzazione sociale in cui il lavoro diveniva fattore di emancipazione, preoccupandosi di influenzare le corporazioni che iniziarono a formarsi a partire dal XII secolo per tutelare le attività degli appartenenti a una medesima categoria professionale.
Cuore della città era il mercato, luogo di compra-vendita dei diversi beni prodotti da contadini e artigiani, pulsante di una nuova linfa: il denaro. È in città che iniziò ad affermarsi una nuova divisione: non più tra potentes e humiles – dicotomia che aveva caratterizzato l’intero periodo feudale – ma tra divites et pauperes, ossia tra ricchi e poveri. Il povero non era una figura nuova all’interno della società medievale, ma nel Basso Medioevo la sua condizione cambiò completamente. Se in un contesto essenzialmente rurale gli indigenti potevano contare sulla rete di solidarietà delle comunità contadine, a partire dal XII-XIII secolo, in ambito cittadino, la povertà divenne quasi una colpa: i mendicanti che vivevano di elemosina ed espedienti erano considerati responsabili della propria condizione sfavorevole, sospettati di pigrizia per il fatto di non avere un lavoro – una mancanza molto diversa dal “santo ozio” della vita contemplativa praticata nei monasteri – e visti come elementi potenzialmente pericolosi per il mantenimento dell’ordine costituito. Lo stesso impegno della chiesa nell’organizzazione di opere assistenziali aveva uno scopo non solo caritatevole, ma anche di preservazione degli equilibri socio-economici, mentre le istituzioni cittadine solo saltuariamente tentarono di incanalare questa forza lavoro inoccupata in impieghi utili per la comunità.6
Il lavoro, o la sua mancanza, come fattore di emarginazione sociale non riguardava però solo i poveri. Secondo la mentalità medievale, infatti, vi era tutta una serie di mestieri che, pur essendo indispensabili per rispondere alle necessità della vita comunitaria, erano considerati disdicevoli. In generale, erano guardati con sospetto tutti quei lavori che portavano all’isolamento e sottraevano quindi al controllo delle istituzioni coloro che li praticavano: non solo i pastori nelle campagne e tra i monti, ma anche i fabbri che spesso vivevano ritirati nelle foreste (non a caso queste figure sono probabilmente all’origine di tanta parte della mitologia circa l’esistenza di mitici fabbri nani7) e tutte le professioni itineranti come marinai, predicatori, giullari o attori.
Anche all’interno delle mura urbane vi erano numerose mansioni considerate infamanti, non solo secondo i pregiudizi popolari, ma bollate come vilia officia perfino nel diritto canonico e negli statuti cittadini. Tra queste, vi erano i lavori considerati impuri perché a contatto con la sporcizia – lavandai, becchini o tintori, che utilizzavano l’urina come fissante – o con il sangue. Macellai, beccai, barbieri e cerusici erano ancora nel XII e XIII secolo oggetto di disprezzo in base alle prescrizioni bibliche contenute nel Levitico, secondo le quali il sangue era veicolo di contaminazione e rendeva l’uomo impuro. Coloro che praticavano professioni di questo tipo erano spesso emarginati sia fisicamente – le loro botteghe erano infatti situate ai margini del tessuto cittadino – sia politicamente, esclusi dalla vita civile, privati insieme ai propri discendenti del diritto di accedere a cariche pubbliche.
La società medievale è stata a lungo condizionata anche dal tabù del denaro, quale resistenza di un’economia naturale a un’economia monetaria. I mestieri in cui esso veniva maneggiato erano illeciti o infamanti: non lo era solo l’usura, condannata nel Vecchio come nel Nuovo Testamento,8 ma anche l’attività di notai, banchieri, amministratori e mercanti. Si tratta di un veto fortemente radicato nella cultura cristiana medievale, che la trasformazione della società bassomedievale era però destinata a stravolgere.
Né contadini né artigiani: i mercanti rappresentano il ceto emergente della società cittadina che dal XIII secolo riuscì gradatamente ad affrancarsi da secoli di sospetto nei confronti della mercatura, mestiere in grado di trarre profitto sfruttando il frutto del sudore altrui. Questa era, di fatto, la colpa del mercante: se il lavoratore doveva operare su esempio dato da Dio con la creazione – Deus artifex – non poteva essere accettabile alcun mestiere che non producesse nulla. Il vivacizzarsi degli scambi e il consolidarsi della posizione economica dei mercanti, soprattutto nell’Italia comunale, imposero però una graduale revisione teorica: l’attività del commercio e il profitto che se ne traeva furono giustificati e legittimati come compensazione del periculus sortis cui l’attività di compravendita era soggetta.
Cancellata progressivamente l’immagine di Gesù che caccia i mercanti dal tempio, a sancire la definitiva approvazione della chiesa nei confronti della mercatura fu la beatificazione da parte di papa Innocenzo III nel 1198 di un commerciante di Cremona: Omobono.9 Pur di umili natali, Omobono ebbe fortuna come mercante di lana, accumulando ingenti ricchezze che per spirito di carità condivise con i poveri della sua città. Attraverso la sua canonizzazione, la chiesa diffondeva un modello comportamentale per un nuovo ceto sociale in rapida ascesa di cui poteva essere premiato il successo, ma ne andavano arginate avarizia e cupidigia, non a caso incluse tra i sette peccati capitali.
Fu un cambio di mentalità radicale: se ancora a metà del XII secolo il Decretum Gratiani10 condannava senza appello ogni forma d’usura, la filosofia scolastica si occupò di analizzarla e di scorporarla in differenti operazioni che divennero non solo tollerate, ma via via accettabili e perfino oneste: da qui l’onorabilità di professioni come cambiatori, contabili e procuratori. Lo stesso Tommaso d’Aquino scrisse riguardo al commercio: «Se ci si dà al commercio in vista della pubblica utilità, se si vuole che le cose necessarie all’esistenza non manchino nel paese, il lucro, invece di essere considerato come fine, è solo rivendicato come remunerazione del lavoro».
Il mercante non fu l’unica figura affermatasi nel pieno Medioevo che dovette combattere con il sospetto per la professione esercitata: anche l’intellettuale cittadino, insegnante presso le Università che iniziarono a sorgere in tutta Europa a partire dal XIII secolo, dovette riscattarsi dall’accusa di un commercio illecito. Così come il mercante era inizialmente sospettato di vendere il tempo, che appartiene solo a Dio, allo stesso modo i docenti e maestri universitari – veri e propri mercanti di sapere – erano accusati di vendere quella scienza che appartiene anch’essa solo a Dio. Solo il cambio di visione rese accettabile la remunerazione dei docenti non come prezzo del loro sapere, ma come retribuzione per la loro fatica.
All’interno della società bassomedievale l’operosità assunse sempre più il carattere di valore positivo e la ricchezza, se compensata dalla carità, indizio del favore divino. Anacronisticamente, si può definire l’inizio di un’epoca di self made men: negli ultimi secoli del Medioevo il lavoro non fu più oggetto di disprezzo, ma la fatica divenne meritevole di un guadagno che andò ad accrescere una fascia intermedia della popolazione, la quale scardinò la tradizionale dicotomia tra potenti e umili, chierici e laici. La stessa nascita del Purgatorio – che iniziò a prendere forma tra XII e XIII secolo per poi fissarsi nell’immaginario collettivo grazie all’opera dantesca – è frutto di questa trasformazione sociale che portò alla concezione di un luogo intermedio, dove la salvezza dell’anima potesse essere conquistata per gradi grazie a lavoro, fatica e penitenza, ma anche acquisendo meriti in una sorta di sacro commercio.
Note
1. «Nec arare terram aut exspectare annum tam facile persuaseris quam vocare hostem et vulnera mereri. Pigrum quin immo et iners videtur, sudore acquirere quod possint sanguine parare», Tacito, Germania XIV-XV.
2. Genesi 3, 19.
3. J. Le Goff, L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 8.
4. Adalberone vescovo di Laon (947-1030) scrisse il Carmen ad Robertum regem in cui fissò la teoria dei tre ordini in cui era teoricamente organizzata la società feudale: gli oratores, ossia coloro che pregano (monaci, vescovi ed ecclesiastici); i bellatores, ossia coloro che combattono, appartenenti alla nobiltà; i laboratores, ossia coloro che lavorano.
5. Adalberone di Laon, Carmen ad Robertum regem.
6. Nel 1367, nei Paesi Bassi, gli uomini disoccupati furono raccolti e, sotto minaccia di finire in prigione, obbligati a lavorare per la manutenzione delle mura cittadine. Si trattò però di un caso isolato, non inserito in un intervento programmatico.
7. Di fondamentale importanza su questo tema è il testo di Franco Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni nell’Occidente medievale, La Nuova Italia, Firenze 1979.
8. Un esempio su tutti: «Prestate senza nulla sperarne», prescrive il Vangelo di Luca (6, 34-35).
9. Festeggiato il 13 novembre, sant’Omobono è il patrono di Cremona, protettore dei commercianti e dei sarti.
10. Il Decretum Gratiani è una raccolta di diritto canonico redatta tra il 1140 e il 1142 dal monaco camaldolese Graziano. Il titolo ufficiale dell’opera è Concordia discordantium canonum.
M. Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1981.
R. Fossier, Il lavoro nel Medioevo, Einaudi, Torino 2002.
J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, e altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000.
J. Le Goff (a c. di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 2005.