Una società che cambia, alunni che cambiano e un nuovo modo di valutare le loro competenze. La nuova valutazione è finalizzata a sviluppare l’autonomia, il problem solving e il pensiero critico, focalizzandosi non su un’intelligenza esclusivamente cognitiva, ma considerando diversi approcci, diverse intelligenze, diverse capacità. Ma a che punto siamo? Quali sono gli ostacoli che incontra l’insegnante e quali strumenti si rivelano utili per uscire dal retaggio della standardizzazione della didattica e della valutazione?
L’abbiamo chiesto a Mariateresa Chieli, dirigente scolastico di Scuola primaria, che in questo risponde ad alcuni dubbi dei docenti rispetto al nuovo paradigma valutativo.
Parlare di valutazione significa affrontare un tema strettamente connesso con la concezione del processo educativo, didattico e formativo, la cui complessità è di sintesi tutt’altro che immediata. Con l’Ordinanza Ministeriale n.172 del dicembre 2020 il concetto di valutazione nella Scuola primaria subisce una profonda trasformazione attraverso l’abolizione dei voti espressi in decimi e la reintroduzione di giudizi descrittivi legati al conseguimento di specifici obiettivi didattici valutati per livelli di competenza. È soltanto l’ultimo dei tanti interventi normativi finalizzati a una revisione delle modalità di valutazione nel corso degli ultimi decenni, in cui si è passati da giudizi di tipo libero e discorsivo, di stampo olistico, alla fine degli anni Settanta, ai voti in decimi, poi all’utilizzo di lettere sul modello valutativo anglosassone, per tornare a giudizi di ordine sintetico e poi ancora a votazioni numeriche sulla scia degli standard di valutazione della Scuola Secondaria. Ritengo che proprio la frequenza con cui si è proceduto all’introduzione di modifiche – una sorta di irrequietudine strutturale nell’adozione di un modello permanente – attesti la complessità dell’atto valutativo in sé e della concezione di istruzione a esso sottesa, con comprensibili oscillazioni tra l’esigenza di sintesi e immediatezza da un lato (tramite l’utilizzo dei voti numerici) e il bisogno di approfondimenti esplicativi dall’altro (attraverso l’impiego del giudizio di tipo discorsivo).
Credo siamo tutti d’accordo sull’idea che valutare non significhi esprimere un giudizio di valore sulla persona, nel tentativo quanto più possibile oggettivo di verificare il conseguimento di conoscenze, abilità e competenze disciplinari ed interdisciplinari – in altre parole, il “saper fare” accanto al “sapere” –, la capacità di gestire consapevolmente le conoscenze nella risoluzione di problemi in autonomia, l’acquisizione progressiva della consapevolezza dei propri bisogni formativi attraverso l’autovalutazione e di un habitus mentale volto all’apprendimento permanente. Per dirla attraverso la più nota delle competenze-chiave europee, la capacità di “imparare a imparare”. Negli anni, la concezione di scuola e di sapere si è evoluta andando oltre l’assimilazione dei contenuti, per porre l’accento sull’acquisizione di abilità e competenze, le sole capaci di formare cittadini consapevoli e adulti padroni del proprio futuro, in grado di affrontare la repentinità dei mutamenti che caratterizza la società contemporanea. Se infatti in passato la scuola del “leggere, scrivere e far di conto” trovava significato nella necessità immediata di fornire agli scolari gli strumenti fondamentali per affrontare una realtà più statica, in cui quelle nozioni erano sufficienti a formare generazioni di ragionieri, negozianti, contabili, insegnanti, oggi preparare all’ingresso nel mondo degli adulti significa non tanto insistere sull’assimilazione di dati e conoscenze, di immediata reperibilità attraverso il Web, quanto piuttosto fornire gli strumenti mentali per utilizzare tali informazioni in autonomia e con spirito critico, diventando attivi costruttori del proprio sapere. In questo senso le molto discusse Prove Invalsi insegnano a concentrarsi sull’acquisizione e valutazione di competenze, prima e piuttosto che sul consolidamento di un sapere nozionistico di stampo tradizionale.
Esistono ancora numerose forme di resistenza. In primis, l’assuefazione importata dalla cultura anglosassone all’impiego di aride batterie di test da somministrare agli alunni che, se da un lato possono riuscire utili per verificare l’acquisizione di specifici contenuti ed abilità, oltre a risultare spesso mortificanti della vivacità mentale e della creatività, si mostrano di fatto inadatte a cogliere il reale valore dell’alunno, che trova sovente espressione in altre forme. Le neuroscienze hanno molto da insegnarci in questo senso. La teoria delle intelligenze multiple di H. Gardner è un esempio lampante di quali e quante diverse modalità di approccio intelligente al reale esistano, e di quanto la scuola sia per certi aspetti rimasta ancorata alla valutazione precipua di capacità esclusivamente cognitive, trascurando un resto importante. Non dimentichiamo che menti brillanti quali Einstein vissero la propria esperienza scolastica come un vero e proprio fallimento nel raggiungimento dei traguardi scolastici tradizionali. Ciò significa chiaramente che occorre interrogarsi sulla validità delle forme convenzionali di valutazione. Non è un caso che proprio in queste settimane sia al vaglio della Camera dei Deputati un progetto di legge per la scuola, finalizzato a valorizzare competenze extra-disciplinari, dalla gestione dello stress, all’empatia, al problem solving. In altre parole, occorre liberarsi dai lacci di una valutazione strettamente legata all’acquisizione di nozioni e contenuti, che per certi aspetti ancora persiste all’interno della scuola italiana, a tutti quanti i livelli, in nome di un sapere che diventi fattivamente “saper fare”. La densità di nozioni presente in certi libri di testo – mi riferisco in particolare agli strumenti didattici spesso in adozione nella Scuola Secondaria di Primo grado – non aiuta il docente a porre attenzione alla formazione prima e piuttosto che all’informazione. Certi modelli didattici innovativi di ordine sperimentale, accolti da INDIRE e sempre più diffusi nelle nostre scuole, nascono proprio con l’intento di scongiurare il rischio costante della secondarizzazione della Scuola primaria.
Ritengo che occorra liberarsi degli automatismi che si mettono in atto nel momento in cui si esprime la valutazione, riflettendo in primis sullo scopo dello stesso processo valutativo, che è anzitutto di ordine formativo. La valutazione è utile nella misura in cui consente all’insegnante di accomodarsi, aggiustare il tiro, rivedere le proprie scelte, in un continuo interscambio per cui il processo di insegnamento-apprendimento dalla stessa valutazione esce potenziato. Ove l’attenzione possa spostarsi dal prodotto al processo.
È inoltre sommativa, la valutazione, nella misura in cui pondera i risultati conseguiti nell’ottica della valorizzazione di quanto di positivo l’alunno, sulla base delle proprie capacità, del proprio percorso di apprendimento individuale, è riuscito a conseguire. Una valutazione attenta alla valorizzazione delle competenze acquisite ha una ricaduta positiva sull’autostima, sulla concezione di sé e sulla motivazione all’apprendimento, ponendosi come pietra miliare per un iter educativo proficuo. Che non significa rinunciare a rilevare cosa manca, cosa non funziona, ma semplicemente definire quanto acquisito quale punto di partenza da cui proseguire attraverso tappe formative non necessariamente standardizzate, facendo sì che in classe la competizione legata al risultato ceda il posto alla collaborazione tra pari – così che la stessa valutazione rappresenti un mezzo e non un fine, a evitare che si avveri il noto detto di Einstein: Perfection of means and confusion of goals seems – in my opinion – to characterize our age.
Il primo suggerimento che mi viene in mente è quello dell’autoformazione. Il docente non finisce mai di imparare. Si mette continuamente in discussione, l’insegnante - legge, si interroga, si documenta, si confronta. Rivede le proprie modalità operative nel tentativo costante di stare al passo con una società che cambia – con alunni che presentano atteggiamenti, stili di apprendimento sempre diversi, dei quali è indispensabile prendere atto al fine di progettare interventi didattici efficaci e costruttivi.
Altrettanto importante è il confronto con i colleghi. Occorre potenziare le opportunità di incontro e di scambio tra i docenti – in questo senso le due ore settimanali di programmazione settimanale già a disposizione dei docenti di Scuola primaria rappresentano una preziosa risorsa. L’auspicabile sburocratizzazione della scuola italiana consentirebbe di disporre di tempi più distesi per tornare a concentrarsi sul “fare scuola” e sulla valutazione. La collegialità nell’azione didattica è entrata prepotentemente nella Scuola Primaria con la L.148 del 1990, che eliminò la figura dell’insegnante unico introducendo il modello del modulo, ove l’insegnamento in team doveva significare operare insieme con l’intento di dare corpo all’interdisciplinarità del sapere al di là del fondamento epistemologico delle singole discipline. Ad oggi, dopo oltre trent’anni, operare collegialmente resta uno degli aspetti più complessi della funzione docente. Sì, perché agire in sinergia con i colleghi di classe anche in rapporto alla valutazione significa mettersi in discussione, cogliere aspetti diversi dello stesso alunno e confrontarsi al fine di costruirne un quadro più completo attraverso le varie sfaccettature che ne costituiscono un unicum, accantonando personalismi e idee preconcette che spesso condizionano il processo valutativo, compromettendone l’oggettività.