Dante a scuola

Come ripensare i percorsi sulla Divina Commedia

IDEE PER INSEGNARE | II GRADOOgni anno i docenti propongono la Commedia a un pubblico di adolescenti, cercando di generare entusiasmo attorno ai temi e alla lingua di Dante. Ma come rinnovare lo studio dell'opera più conosciuta della letteratura italiana? 

Ci sono molti modi di ricordare Dante in questo settecentenario. Alcuni sono francamente discutibili, come l’idea di spostarne per una settimana le ceneri da Ravenna a Firenze; altri possono essere un’occasione da non lasciarsi sfuggire: per esempio proporre letture dantesche, magari di canti meno noti della Commedia, in città di provincia, fuori dai grandi circuiti nazionali. E naturalmente c’è la scuola.

Quanti canti leggere a scuola?

Lo studio di Dante è ampiamente previsto nel triennio della scuola secondaria superiore. Le Indicazioni nazionali del 2010, promosse da un comitato di cui faceva parte anche chi scrive, raccomandano la lettura della Commedia «nella misura di almeno 25 canti complessivi». Ma tutti sappiamo che si tratta di un traguardo che si raggiunge con difficoltà; e sappiamo, da tempo, perché.
La lettura del Paradiso dislocata nell’ultimo anno convive a fatica con la prospettiva novecentesca e contemporanea, e col dilatarsi della tradizionale “letteratura” ad altre forme espressive con le quali il docente di italiano deve inevitabilmente fare i conti, dal cinema al graphic novel.
In particolare per la terza cantica, ma non solo, è difficile prescindere dal retroterra filosofico del quale Dante si nutre, e Aristotele o san Tommaso sono nomi legittimamente ignoti agli studenti di istituti tecnici o professionali; in tutto il poema è costante il riferimento ai poemi classici e alla mitologia, con rimandi che possono essere còlti, quando lo sono, solo dagli studenti dei licei classici e scientifici ordinamentali: «Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio» Inf., XXV, v. 97, «e qui Caliopè alquanto surga» Purg., I, v. 9, «Qual venne a Climenè per accertarsi» Par., XVII, v. 1 ecc. Ci sono le note, certo, ma in assenza di un orizzonte culturale condiviso rischiano di essere contenitori di nozioni inerti. Forse a Calliope, dato il frequente riferimento alle muse nella poesia italiana fino all’Ottocento, ci si può arrivare, ma non ha senso sforzarsi di ricordare chi sia Climene se il nome di Ovidio e delle Metamorfosi non ci dice assolutamente niente.

Leggere il canto V dell’Inferno con nuovi occhi

C’è un rimedio che rischia di essere peggiore del male, ovvero ritagliare gli episodi più celebri e limitarsi alla lettura di quei versi: per esempio, nel canto V dell’Inferno, partire dal v. 70, «Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito» e quindi focalizzare la nostra attenzione sull’incontro con Paolo e Francesca. Ma quante cose perderemmo, proprio per la comprensione poetica, limitandoci a quel celebre episodio? Quello che può sembrarci un arido elenco di nomi, ai vv. 58-67, in realtà ci dice molto del modo in cui Dante (e il Medioevo) percepivano il peccato della lussuria: un peccato al quale erano naturalmente esposte le donne, per definizione fragili, e infatti dei sette nomi dell’elenco, la maggioranza è femminile: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena. Ed è interessante fare emergere – per storicizzare il nostro approccio al mondo dantesco e quindi all’occorrenza prenderne le distanze − le tirate misogine presenti nel poema.
Due nel Purgatorio, quando Nino Visconti deplora che la vedova sia passata a nuove nozze, come era suo diritto («Per lei assai di lieve si comprende / quanto in femmina foco d’amor dura / se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende» VIII, vv. 76-78) e quando Forese contrappone la fedeltà e la modestia della sua Nella alle «sfacciate donne fiorentine» che vanno «mostrando con le poppe il petto» (XXIII, vv. 101-102); una nel Paradiso, là dove Cacciaguida celebra il buon tempo antico, in cui le donne non stavano davanti allo specchio per truccarsi ed erano intente al «fuso e al pennecchio», cioè alla filatura della lana entro le mura domestiche (XVII, vv. 113-117).Non solo. Amputando la lettura del canto, perderemmo il senso della progressione delle tre similitudini uccelline che si susseguono.
La prima, «E come li stornei ne portan l’ali» (V, v. 40), è puramente descrittiva e rappresenta lo sballottamento dei dannati esposti alla «bufera infernal che mai non resta» (V, v. 31).
La seconda, «E come i gru van cantando i lor lai» (V, v. 46), individua uno specifico gruppo di lussuriosi, i morti di morte violenta, e introduce una nota patetica attraverso lai, che in origine indicava una specie di poemetto della letteratura francese antica (prefigurando, forse, il riferimento alla storia di Lancillotto e Ginevra, che sarà occasione del cedimento dei due cognati), ma che viene reinterpretato, già nelle poche accezioni che precedono Dante, come “lamenti” (e con questo valore si è usato nella tradizione letteraria).
Sono due similitudini che vanno lette in serie con la terza, famosissima, quella delle «colombe dal disio chiamate» (V, v. 82), senza occultarne l’ambiguità. Davvero le colombe sono evocate in quanto simbolo della lussuria, come vogliono molti commentatori antichi e moderni? O non sarà piuttosto da tenere in conto la testimonianza dei bestiari medievali, in cui la colomba è spesso associata a immagini positive, l’innocenza o addirittura la prefigurazione di Cristo?
Insomma, il fascino di un episodio così famoso sta anche in questo: il Dante autore condanna Paolo e Francesca, non c’è dubbio, ma il Dante personaggio ha un rapporto simpatetico con loro, al punto di perdere i sensi per l’emozione provata: «e caddi come corpo morto cade».

Scommettere anche su altri canti della Commedia

Mi sono soffermato su un canto sempre presente quale che sia l’attraversamento della Commedia compiuto in classe, con l’idea di proporne una lettura non corriva, attenta alle implicazioni del testo. Ma mi piacerebbe che il docente toccasse anche altri momenti del poema, non necessariamente quelli più spesso commentati a scuola (e, in questo caso, senza preoccuparsi di leggere per intero il canto). Pensiamo alla vivacità delle Malebolge (Inf., XXII) e all’astuzia col quale un dannato, il Navarrese, riesce a ingannare i diavoli Alichino e Calcabrina, che finiscono nella pece bollente al suo posto (è l’unico esempio, nell’Inferno, di un dannato che sfugge, sia pure per un momento, alla sua pena) o al canto IX del Paradiso e al cielo di Venere in cui si trovano un personaggio biblico, la meretrice Raab, e Cunizza da Romano, l’unico beato di cui si ricordino i peccati commessi in terra: ancora una volta un significativo tributo all’amore da parte di Dante. Ad ogni buon conto, si tratta di un passato che non incide sulla perfetta felicità di cui godono le anime del Paradiso: «Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella; / ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia» (Par., IX, vv. 32-35).

Spunti motivanti

Il problema, come in tanti altri casi, è: dove trovare il tempo? Ci sono alcune soluzioni drastiche: il dipartimento di lettere potrebbe decidere di concentrare la lettura di Dante nel terzo anno, sacrificando al massimo il resto (per esempio, limitando la lettura di altri testi a una poesia di Guinizzelli, una di Cavalcanti e al Cantico di Francesco), ma col vantaggio di poter fare un discorso organico sul poema, riuscendo a trovare un po’ di spazio anche per Vita nuova (parlando dunque per questo tramite anche di Stilnovo) e Convivio. Altre soluzioni ricadono nella scelta del singolo docente. E qui vorrei insistere su un punto.
Si parla sempre della motivazione degli studenti, com’è giusto. Ma è importante che anche i docenti siano motivati: e credo che la riproposizione, ogni anno, sempre e solo degli stessi episodi (oltre a Francesca da Rimini: Farinata, Ugolino, i sesti canti, Cacciaguida, la finale preghiera alla Vergine) – tutte tappe che vanno necessariamente attraversate, sia chiaro – abbia qualche controindicazione. Scommettere anche su altri momenti della Commedia può essere stimolante in primo luogo per chi ha il delicato compito di proporre la poesia di Dante a un pubblico di adolescenti. Al paio di esempi già citati, si può aggiungere, tra i tanti:– Inferno XXXII, con la drammatica aggressione da parte di Dante a Bocca degli Abati, il traditore di Montaperti;
– Purgatorio XIV, con la rappresentazione della corruzione dei Toscani che, nelle parole di Guido del Duca, si incarna in altrettanti animali che abitano la valle dell’Arno;
– Paradiso XX, col problema dell’imprevedibilità della salvezza attraverso la celebrazione di Traiano (la cui salvezza era affermata in una leggenda preesistente a Dante) e di Rifeo, un oscuro personaggio dell’Eneide, che Dante fa simbolo dell’imperscrutabilità del giudizio divino: come dice san Bernardo in Par. XIII, vv. 139-142, «Non creda donna Berta e ser Martino, / per vedere un furare, altro offerere, / vederli dentro al consiglio divino: / ché quel può surgere, e quel può cadere».

Riflessioni sulla lingua di Dante

Un’ultima considerazione. Nel leggere Dante a scuola si possono tralasciare questioni che, ad altri livelli di esegesi, sarebbero importanti: chi «fece per viltade il gran rifiuto» (Inf., III, v. 60)? Probabilmente sarà Celestino V, e tanto basti dire a scuola, anche se altre candidature proposte, come Pilato, non sono irragionevoli. Meglio, invece, soffermarsi sui tanti aspetti della lettera, partendo dalla doverosa attenzione alla lingua, in parte ancora trasparente per noi, in parte opaca (che vorrà dire la ramogna di Purg., XI, v. 25?), in parte equivoca, perché la parola sembra la stessa, ma il significato è diverso.
Quest’ultimo aspetto offre l’occasione per alcuni confronti istruttivi:– i parenti di Virgilio, Inf., I, v. 68, sono, latinamente, i “genitori” (e questa accezione si è continuata nel francese parents e, di lì, nell’inglese parents);
– la noia di Inf., I, v. 76 non è “assenza di sensazioni positive o negative”, come oggi (nell’Inferno non ci si annoia di certo!), ma “angoscia, pena”; e il valore sopravvive anche oggi, attenuato in espressioni come ha avuto noie con la giustizia, noie al fegato.La poesia è fatta di parole e nella grande poesia le parole hanno una speciale importanza. Cercare di capire qual è il significato di base e collegare quel significato alle nostre personali competenze linguistiche è il primo passo (insufficiente, d’accordo, ma non eludibile) da compiere per accostarsi a Dante.


La statua di Dante

Statue di Dante ne esistono parecchie. Ma una sola, per quel che sappiamo, rappresenta anche Beatrice.
L’ha realizzata Adelfo Galli, scultore in Renazzo di Cento, nelle campagne ferraresi, dopo uno scambio di battute con Franco Nembrini (A scuola con Dante, Pearson 2021): «A tutte le statue di Dante manca una cosa» «Che cosa?» «Manca Beatrice. Dante senza Beatrice non sarebbe Dante». Colpito dalla conversazione, Adelfo si mette all’opera.
Il risultato è un’installazione composta da due elementi, che rappresenta l’incontro fra Dante e Beatrice nel Paradiso terrestre (Purg XXX).
Il primo elemento è un grande bassorilievo (3 metri per 3,40), che raffigura l’arrivo di Beatrice: sullo sfondo, il carro della Chiesa trainato dal grifone (descritto in Purg XXIX); al centro, Beatrice che quasi a tutto tondo “esce” dal pannello e si lancia incontro a Dante.
Il secondo è una statua del poeta a grandezza naturale, colto nell’attimo in cui si sta scoprendo il capo, travolto dallo stupore e dalla commozione per la vista di lei. Bassorilievo e statua sono collocati uno di fronte all’altra, e lo spettatore, muovendosi fra l’uno e l’altra, può entrare a far parte della scena e dell’evento.
L’originale dell’opera, in terracotta, si trova nella sede del pensionato universitario CEUR di Firenze, al momento in fase di avanzata costruzione, e a lavori ultimati sarà collocata nell’atrio dell’edificio.
Una copia in resina è esposta nell’ingresso della biblioteca di Erba (CO).