IDEE PER INSEGNARE - SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO E SECONDO GRADO.
Oggi si sente parlare spesso di scarse competenze linguistiche dei nostri studenti, anche di quelli universitari, e tra le lacune viene segnalata l’ortografia, alle volte carente anche nella fasi più avanzate del percorso scolastico. Cerchiamo di approfondire il tema partendo da un presupposto: l’ortografia è una materia complessa i cui nodi non possono essere tutti sciolti entro i primi cinque anni di scuola primaria.
Nel recente dibattito, che ha coinvolto addetti ai lavori e grande pubblico, relativo alle scarse conoscenze linguistiche di cui danno prova anche studenti in avanzata fase di scolarità, è stato più volte citato il caso dell’ortografia. Si è detto, e molti docenti universitari hanno convenuto, che gravi errori di ortografia continuano a serpeggiare in testi di scriventi ormai adulti, alle soglie della laurea.
Eppure l’ortografia dell’italiano è notoriamente abbastanza trasparente, soprattutto se confrontata con quella di altre lingue di grande cultura. Qualcuno potrebbe pensare che la colpa sia tutta della scuola primaria, che ha appunto il compito di insegnare a tradurre i suoni in grafemi, il parlato in scrittura, e che dunque si debba intervenire con più convinzione nei primi anni di scuola.In effetti, le Indicazioni nazionali (2012) si occupano di ortografia soprattutto nel ciclo primario. Lungo il corso dei primi tre anni della scuola primaria i bambini, si dice, devono essere indotti a “prestare attenzione alla grafia delle parole nei testi” per poter essere in grado di “applicare le conoscenze ortografiche nella propria produzione scritta”. Al termine della classe quinta i bambini devono essere messi in grado di “conoscere le fondamentali convenzioni ortografiche”, onde potersi servire “di questa conoscenza per rivedere la propria produzione scritta e correggere eventuali errori”. Dunque il percorso suggerito è quello di guidare i bambini a notare le convenzioni della lingua scritta da altri, perché dalla consuetudine con i testi scritti e dall’attenzione mirata alla forma delle parole, oltre che al loro significato, possa gradualmente svilupparsi una sensibilità ortografica. Di ortografia, poi, non si parla più in modo specifico, anche se alla fine della terza classe della secondaria di primo grado si rammenta la necessità di addestrare i propri allievi a “riflettere sui propri errori tipici” - dunque, immaginiamo, anche quelli ortografici - per “imparare ad autocorreggerli”. E questo è tutto.
La brevità e la semplicità della formulazione ministeriale, tuttavia, non devono trarre in inganno. Nonostante la grafia dell’italiano abbia effettivamente un buon grado di trasparenza fonetica, non ci si illuda sulla brevità del percorso. È vero che ci sono convenzioni ortografiche che è relativamente facile per un bambino acquisire e padroneggiare, ove si tratti della resa grafica di suoni ben definiti, per i quali si può effettivamente parlare di una corrispondenza biunivoca tra suono e grafema. Questi casi non pongono quasi mai problemi, il lavoro si fa e, direi, si esaurisce nei primissimi anni di scuola, via via che procede il processo di alfabetizzazione. Ma, ahimè, ci sono molti casi insidiosi, che sono quelli in cui non si può parlare di perfetta corrispondenza tra suoni e grafemi, e che proprio per questo continuano a porre problemi anche in fasi avanzate di scolarità. Non c’è bisogno di fare una rassegna di questi casi (la fanno comunque Cignetti e Demartini 2016, p. 20), sui quali da sempre giustamente si appunta l’attenzione di docenti e libri di testo. Mi soffermerò quindi su un solo caso, e relativi nessi, a riprova della oggettiva complessità della materia.
Com’è noto, i grafemi c e g rendono in italiano suoni diversi: se sono seguiti da a, o, u hanno suono velare (gatto, gola, gusto; cane, cosa, cura), se sono seguiti da e, i hanno valore palatale (gente, giro; cena, cinema). Per rendere il suono velare con la e e con la i, si usano gli stessi due grafemi accompagnati però dall’h (ghepardo, ghiaccio; barche, chiesa). Quando però sono seguiti da consonante, i due grafemi si comportano in modo diverso: la c ha sempre suono velare, e dunque si pronuncia sempre k (clessidra, tecnica).
Anche la g ha suono velare (segmento, grano), ma se seguita da l forma trigramma nelle parole di tradizione parlata come aglio e figlio (nelle quali rende la fricativa mediopalatale esito del latino lj), mentre conserva valore di velare autonoma nelle parole di tradizione colta, qualunque sia la vocale che segua alla l, come si osserva in glaciazione, gleba, glicine, glissare, globo, glucosio, negligente, anglistica.
Seguita da n, la g forma sempre un digramma, che rende la nasale occlusiva mediopalatale, come in cagna, montagne, bagni, guadagno, gnu, mentre conserva valore di velare autonoma in alcune rare parole di origine straniera (Wagner, wagneriano, gneiss).
I casi appena illustrati ci fanno capire che molte delle convenzioni enunciate, faticosamente raggiunte nel corso dei secoli, sono state modificate dal sovrapporsi di strati di lingua di diversa tradizione (voci della lingua parlata, assunzioni massicce dal latino e dal greco) e, in epoca più recente, dai prestiti da altre lingue: parole oggi molto diffuse proprio tra i giovani e i giovanissimi disattendono alle regole appena elencate. In una sola pagina di un noto dizionario italiano trovo elencati (scelgo solo i vocaboli più comuni) cha cha cha, chador, chairman, chalet, champagne, champignon, chance, chansonnier, chapeau, charleston, charme, charter, chat, chattare, chaffeur, dove il nesso cha, che l’italiano non prevede, viene reso con pronunce diverse a seconda della lingua di origine di queste parole.
Ulteriori difficoltà derivano dalle diverse pronunce regionali, le quali si discostano spesso in modo forte dalla fonologia del fiorentino colto, sul quale sono state fissate, a partire dal Cinquecento, gran parte delle convenzioni ortografiche dell’italiano. Fiorentino colto, appunto: lo stesso fiorentino parlato di oggi non trova per esempio nella scrittura alcun grafema che renda la cosiddetta gorgia, vale a dire la realizzazione spirantizzata o aspirata della c velare in posizione intervocalica (poco → poho; in fonosintassi la casa →la chasa); o la spirantizzazione di c e g palatali in posizione intervocalica (bacio → bascio; in fonosintassi la cena → la scena). Così come alcuni casi di doppie in fonosintassi (la ccasa), propri della pronuncia toscana, non trovano corrispondenze in altre regioni italiane. Per non parlare della questione delle consonanti doppie intervocaliche: diffusamente mancanti al Nord, sovrabbondanti al Sud, soprattutto la b e la g palatale (la bbocca, subbito; la ggente, cuggino). Insomma le doppie continuano a essere fonte di errori anche in parlanti di buona cultura, che hanno spesso dubbi in proposito.
Per non parlare dei casi in cui, sempre restando nell’ambito di c e g e relativi nessi, le grammatiche scolastiche parlano di i sovrabbondante, per designare una i che non viene sentita nella pronuncia ma che la norma grafica richiede: è il caso del plurale dei nomi in -cia, -gia preceduti da vocale (camicie, ciliegie vs. province, piogge); di parole come specie, sufficiente, crociera vs. incenerire, crocevia, percezione, o anche di parole col nesso sc come scienza, incoscienza vs. scemo, ascensore dove la i ora compare prima della e, ora scompare anche tra parole “etimologicamente affini come efficiente e soddisfacente” (Colombo 2011, p. 57).
Un'altra fonte di incertezze è la presenza della i nella prima persona plurale dell’indicativo e nella prima e seconda persona plurale del congiuntivo dei verbi in -gnare. Nonostante la pronuncia non faccia sentire la i, la regola morfologica ha avuto a lungo la meglio sulla fonologia. Infatti, la desinenza della prima persona plurale dell’indicativo è -iamo (cantiamo, vediamo, bagniamo, non cantamo, vedamo, bagnamo), e le desinenze della prima e seconda persona plurale del congiuntivo sono -iamo, -iate (che noi cantiamo, che voi vediate, che noi segniamo, non che noi cantamo, che voi vedate, che noi segnamo). Ma qualcuno si dice oggi disponibile ad accettare, per i verbi in -gnare, anche le varianti senza i (Cignetti-Demartini 2017, p. 58).
Insomma, rimane sempre valido quanto scriveva in proposito De Mauro (1977, p. 61) 40 anni fa: «le incoerenze sono troppe e abbastanza note […] la i ora appare e ora no, in base a criteri svariati che tutti applicano solo parzialmente e incostantemente, sicché la i è stata definita dal Camilli [1965] "la pietra dello scandalo dell’ortografia italiana"». Più recentemente Serianni (2006 pp. 106-110) fa un’utile rassegna di queste (e altre) oscillazioni, spiegandone la ragioni storiche e suggerendo qualche soluzione. Non ultima la consultazione del Dizionario d’ortografia e di pronunzia (DOP) da lui definito “il testo più autorevole in materia” (p. 107), e che ha l’innegabile vantaggio di poter essere consultato in rete.Dunque, gli studiosi che se ne sono occupati ci ricordano che su alcuni fatti ortografici la norma contemporanea registra molte oscillazioni, che è bene conoscere prima di decidere se e quando intervenire. Non ci sono oscillazioni invece in alcune convenzioni ortografiche molto insidiose, fonte di numerosi errori, che dipendono dalla funzione sintattica svolta dagli elementi implicati, spesso omofoni ma non omografi: si pensi, solo per fare gli esempi più noti, alle coppie e/è, a/ha, o/ho, da/dà, ce/c’è, la/là, lo/l’ho, glielo/gliel’ho e altre ancora, la cui resa nel parlato è identica, ma la cui diversa funzione sintattica viene segnalata nella grafia attraverso espedienti diversi (accento, presenza della h), cui talvolta si aggiunge, a complicare il tutto, il fenomeno dell’elisione, segnalato nella grafia dall’apostrofo. Per non parlare dei casi, ancora più complessi da dipanare, in cui gli elementi omofoni sono tre, come per la/ là/ l’ha, ne/ né/ n’è, se/ sé/ s’è e così via. Sono casi, questi, in cui la correttezza dell’ortografia dipende da una matura capacità di analisi della struttura delle frasi, e questa non si dà nei primissimi anni di scuola.
Gli esempi appena fatti ci ricordano che, accanto ai segni alfabetici, i bambini che apprendono la scrittura devono fare i conti anche con altri segni di diverso tipo e diversissima funzione, quali apostrofi e accenti, per non parlare dei segni di punteggiatura. Imparare a districarsi fra tutti questi segni non è facile. E tuttavia l’incontro con questi segni e le parole o i testi che li contengono è precocissimo, avviene cioè già nelle primissime fasi della lingua scritta, quando i bambini si troveranno a scrivere e congiunzione ed è verbo, a preposizione e ha verbo, e in caso di errore il docente dovrà correggere, chiedendosi quali parole usare, a quali categorie fare riferimento avendo la ragionevole certezza di essere capito. A tal proposito potranno essere di grande aiuto le attività messe a punto da Fornara (2016), pensate proprio per facilitare il percorso acquisizionale nell’ortografia.