Una data simbolica

Il 9 novembre 1989 diecine di migliaia di abitanti di Berlino est si riversarono nei punti di passaggio del muro dopo aver ascoltato alla radio o alla televisione la conferenza stampa di un importante esponente del partito comunista che annunciava nuove e più liberali regole per il passaggio a Berlino ovest. A domanda di un giornalista, il funzionario aveva risposto che le nuove regole sarebbero entrate in vigore da subito. Bastarono queste parole perché i berlinesi dell’est si dirigessero verso il muro che divideva la città in due. Le guardie di frontiera chiesero istruzioni, che nessuno era in grado di dare, aumentando la confusione. Non essendoci modo di controllare la folla, sempre più numerosa, i varchi furono aperti. Dall’altra parte del muro i concittadini dell’est furono accolti con entusiasmo. In realtà il «muro della vergogna», come fu battezzato, era caduto solo simbolicamente, poiché la vera demolizione incominciò parecchio tempo dopo, ma nell’immaginario collettivo il 9 novembre restò la data da ricordare: quel giorno era crollato uno dei simboli peggiori della Guerra fredda. 

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Dal blocco di Berlino alla nascita delle due Germanie

Alla fine della Seconda guerra mondiale la Germania sconfitta era stata divisa tra le potenze vincitrici, Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Francia. Anche la città di Berlino, che si trovava all’interno del settore tedesco assegnato all’Unione Sovietica, fu divisa in quattro parti. I tre settori delle potenze occidentali furono poi unificati dal punto di vista economico. Quando queste proposero una riforma monetaria, per introdurre il nuovo marco tedesco, l’Unione Sovietica si oppose. Il nuovo marco fu quindi introdotto nei soli settori occidentali. Stalin allora cercò la prova di forza, bloccando tutti gli accessi autostradali e ferroviari a Berlino a partire dal 24 giugno 1948, isolando Berlino ovest, divenuta così una vera e propria isola occidentale nel territorio assegnato all’URSS. Fu uno dei primi episodi di quella che si cominciava a chiamare Guerra fredda.

Gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali reagirono organizzando un imponente ponte aereo per rifornire Berlino di viveri, medicinali e di quanto era necessario per la sopravvivenza di una città. Il blocco di Berlino terminò il 12 maggio 1949, quando Stalin si rese conto che le potenze occidentali non avrebbero ceduto. Poco dopo (23 maggio 1949) dai settori americano, britannico e francese nacque la Repubblica Federale Tedesca (RFT o BRD) e in seguito (7 ottobre 1949) da quello sovietico la Repubblica Democratica Tedesca (RDT o DDR).

L’esodo verso ovest e la costruzione del muro

Per evitare l’esodo dei suoi cittadini verso la RFT, nel 1952 la RDT chiuse il confine tra le due Germanie, ma numerosi tedeschi dell’est continuarono comunque a passare in occidente muovendosi da Berlino est a Berlino ovest e da lì nella Germania occidentale o in altri paesi non comunisti. Si calcola che dal 1949 all’inizio degli anni Sessanta il loro numero arrivasse a una cifra fra i due e i tre milioni, vale a dire quasi il 20% dell’intera popolazione della RDT. L’esodo preoccupò i responsabili della Germania orientale, anche perché la maggior parte degli espatri riguardava la parte più colta della popolazione: ingegneri, tecnici, insegnanti, lavoratori specializzati, per i quali erano stati fatti cospicui investimenti nell’istruzione. Ciò procurava pesanti perdite economiche, per non parlare della diminuzione del prestigio dell’intero sistema sovietico. Anche a seguito di pressioni dell’URSS, le autorità della Repubblica Democratica Tedesca limitarono la libertà di passaggio tra i due settori di Berlino, senza però poterla impedire del tutto, visto l’alto numero di berlinesi dell’est che avevano trovato lavoro nel settore occidentale.

È difficile dire se l’iniziativa della costruzione del muro per bloccare completamente l’esodo della popolazione venisse dal segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica Kruscev o da quello del Partito della Germania est Ulbricht, preoccupato per le sorti del suo paese. Fu la presenza alla testa degli Stati Uniti del neoeletto presidente Kennedy, giudicato da Kruscev giovane e inesperto e incapace di reagire, che fece credere giunto il momento opportuno per agire. Così la mattina della domenica 13 agosto 1961 il confine fu chiuso e militari e operai cominciarono ad erigere una barriera tra i due settori di Berlino (43 km) e tra il resto di Berlino ovest e la Germania est (156 km), inizialmente con installazioni di filo spinato e nei giorni seguenti con un vero e proprio muro. I berlinesi dell’est che lavoravano all’ovest persero il loro lavoro e molte famiglie furono separate. Le autorità della RDT battezzarono il muro Antifaschistischer Schutzwall, cioè “bastione contro il fascismo”, e giustificarono l’operazione con la volontà di impedire una aggressione occidentale e l’infiltrazione di spie. Non vi furono però azioni dirette a impedire l’accesso a Berlino ovest da parte dei paesi occidentali come era avvenuto nel 1948, cosa che limitò le reazioni americane, britanniche e francesi a mere proteste diplomatiche e al rafforzamento della presenza militare in città. Le proteste vennero dai berlinesi dell’ovest e dal loro borgomastro, Willy Brandt, che criticò aspramente gli Stati Uniti per la loro inerzia.

La propaganda dell’Occidente

Da allora il muro fu reso sempre più invalicabile, con installazioni sempre più ardue da superare. Seguendo una direttiva emanata nel 1973, le guardie di frontiera non esitavano a sparare a chi cercava di attraversare il muro. Negli anni di esistenza del muro circa 5 000 persone riuscirono a passare in occidente, mentre il numero di quelli uccisi nel tentativo di superarlo si calcola tra i 140 e i 200. Il muro costituì indubbiamente un elemento negativo per il comunismo, la dimostrazione che solo la costrizione poteva far restare la gente in un paese retto dal regime comunista, che il sistema sovietico non attirava ma respingeva.

Il «muro della vergogna» divenne immediatamente uno strumento di propaganda contro i regimi comunisti. Tra i primi a sfruttare polemicamente l’erezione del muro fu il presidente Kennedy, che il 26 giugno 1963 tenne a Berlino il famoso discorso in cui diceva «Ich bin ein Berliner», io sono un berlinese, sottolineando le differenze tra un regime di libertà e uno di oppressione. Anni dopo, il 12 giugno 1987, fu un altro presidente americano, Ronald Reagan, a sfidare Michail Gorbačëv, dal 1985 segretario del PCUS, invitandolo ad abbattere il muro.

Il contesto dell’89

In realtà furono proprio le riforme di Gorbačëv in Unione Sovietica ad azionare il movimento che avrebbe portato alla caduta del muro. Il progressivo ritiro delle truppe sovietiche dai paesi comunisti dell’Europa centro-orientale, dovuto all’impossibilità di sostenerne le spese, favorì l’emergere di forze democratiche locali, specialmente in Polonia e in Ungheria. In Polonia le agitazioni erano cominciate già nel 1980, all’indomani dell’elezione al soglio pontificio del cardinale polacco Karol Wojtyła. Gli scioperi nei cantieri navali di Danzica avevano portato alla costituzione di Solidarność, primo sindacato non comunista e di ispirazione cattolica, che fu sciolto nel dicembre 1981, quando fu proclamato lo stato d’assedio, mantenuto fino al luglio 1983. Il deteriorarsi della situazione economica della Polonia indusse però le autorità comuniste, non più sostenute dall’URSS di Gorbačëv, a cercare il dialogo con la Chiesa cattolica, che godeva di grande prestigio nel paese, e con Solidarność. Ne scaturirono accordi che prevedevano libere elezioni che si tennero nel giugno 1989 e videro un enorme successo di Solidarność. In Ungheria il cambiamento della classe dirigente comunista portò nel maggio 1989 all’apertura della “cortina di ferro” verso l’Austria. Ciò fece precipitare la situazione anche nella RDT. Nell’estate 1989 numerosissimi furono i tedeschi orientali che si recarono in Ungheria, passando da lì in Austria e dall’Austria alla RFT. Altri si rifugiarono nelle ambasciate della RFT di Praga e Budapest, con l’intenzione di non tornare più nella Germania comunista. Spinto dalle proteste popolari e dagli stessi dirigenti del Partito comunista, che lo osteggiavano non considerandolo più adatto alla nuova situazione europea, il segretario Erich Honecker nell’ottobre fu costretto a dimettersi. Il nuovo governo decise di permettere le visite dei tedeschi orientali nella RFT e a Berlino ovest, dando il via inconsapevolmente alla caduta del muro, come si è detto all’inizio.

L’inizio di una nuova epoca?

La fine dei regimi comunisti dell’Europa centro-orientale, del muro e, due anni dopo, dell’Unione Sovietica parvero l’inizio di una nuova epoca. Finiva il bipolarismo, si chiudeva la Guerra fredda con il trionfo dell’occidente sul comunismo. L’unione tra democrazia e neo-liberismo economico, incarnata negli Stati Uniti, aveva trionfato sugli altri sistemi politico-economici. Qualcuno parlò ingenuamente di fine della storia1 e molti credettero che non sarebbero stati più necessari barriere e muri invalicabili.

In realtà muri e muraglie con scopi difensivi sono sempre esistiti. Il più antico, ma indubbiamente il più famoso è la Muraglia cinese, che si estende per quasi 9 000 km e che doveva tenere lontana dal Celeste impero la minaccia delle tribù mongole. Ma si può ricordare anche il vallo di Adriano, costruito dai romani per difendere il confine settentrionale dell’impero, e il vallo Antonino, 160 km più a nord, per non parlare delle cinte murarie di tutte le città, dall’antichità fino alla metà dell’Ottocento. Fu solo allora che cominciò l’abbattimento delle mura, di pari passo con i mutamenti urbanistici di grandi città come Vienna o Parigi, seguite poi da tutte le altre.

Il muro di Berlino ebbe un significato totalmente diverso, essendo stato eretto per impedire di uscire e non di entrare, nonostante gli sforzi della propaganda comunista, come si è accennato, di considerarlo un baluardo contro una eventuale aggressione del mondo capitalista. Caduto il muro di Berlino, tuttavia, molti muri sono sopravvissuti e altri sono stati costruiti, con motivazioni diverse, ma riconducibili a due: muri per prevenire una aggressione bellica e muri per impedire l’arrivo di migranti in fuga da regioni più povere o soggette a eventi bellici.

Muri difensivi

Il più antico dei primi è sulla linea di divisione tra le due Coree, al 38° parallelo, ultimo residuo della Guerra fredda. Si tratta di una striscia di due chilometri di larghezza, che corrisponde alla linea del «cessate il fuoco» stabilita nel 1953 che pose termine alla guerra di Corea, un conflitto durato tre anni che fece due milioni e mezzo di morti per lasciare tutto come era in precedenza. Il 38° parallelo era infatti il confine tra la zona di occupazione sovietica e quella americana nella penisola coreana alla fine della Seconda guerra mondiale. Definita «Zona demilitarizzata coreana» è in realtà uno dei confini più armati (e più invalicabili) del mondo, controllato dalle truppe delle due Coree.

Un antico problema internazionale è invece all’origine del muro che separa India e Pakistan nella regione contesa del Kashmir. Vi sono 550 km di filo spinato che dividono la regione tra la parte amministrata dall’India (Jammu e Kashmir) e quella amministrata dal Pakistan (Azad Kashmir). Vi è poi anche una parte attualmente controllata dalla Cina, pressoché disabitata. La guerra indo-pakistana del 1965-1966 non mutò la situazione di divisione dell’area, che resta uno dei focolai di tensione nel mondo.

Anche in Europa ci sono muri, come a Belfast, capitale dell’Irlanda del Nord, e in altre città di questo territorio, come Derry, che separano quartieri cattolici da quelli protestanti. Anche se gli accordi di pace del 1989 hanno messo fine alla fase più sanguinosa del conflitto tra nazionalisti (cattolici e fautori dell’unificazione dell’Irlanda) e unionisti (protestanti e desiderosi di restare con la Gran Bretagna), che aveva fatto migliaia di morti, le divisioni tra le due comunità permangono. A Belfast i 26 muri divisori degli anni Settanta, all’apice degli scontri (The Troubles) sono diventati ora quasi 90. Durante il giorno i varchi sono aperti, ma la sera vengono chiusi dalla polizia e tutti rientrano nei propri quartieri per timore di aggressioni. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (Brexit), con la rimessa in discussione del confine virtuale tra le due parti dell’Irlanda, è un ulteriore motivo di preoccupazione nei rapporti tra cattolici e protestanti a Belfast e in altre città dell’Irlanda del Nord e lascia immaginare il sorgere di ulteriori muri divisori.

Una situazione analoga si trova nell’isola di Cipro, dove vivono greco-ciprioti, di religione ortodossa, e turco-ciprioti, di religione musulmana. Nel 1974, dopo il tentato colpo di stato dei colonelli greci che intendevano annettere l’isola e la conseguente invasione turca della parte settentrionale di Cipro, si costituirono due stati, la Repubblica di Cipro, a grande maggioranza greca, e la Repubblica turca di Cipro, riconosciuta dalla sola Turchia. I due territori sono divisi da una «zona cuscinetto», definita “linea verde”, che si estende per 180 km ed è controllata dai Caschi blu dell’ONU. Tentativi di riunificazione non sono mancati, ma senza produrre risultati concreti. Un referendum nel 2004 ha visto i turco ciprioti favorevoli alla riunificazione e i greco-ciprioti decisamente contrari.

Il Marocco ha elevato un muro (tecnicamente un berma, vale a dire un muro di terra adiacente a un fossato) nel Sahara occidentale, per dividere la parte controllata dal Marocco stesso da quella controllata dal nazionalista Frente Polisario. Il berma si estende per 2 700 chilometri e taglia in due la regione da nord a sud. Il territorio, ricco di fosfati, giacimenti petroliferi per non parlare di una costa particolarmente pescosa, era stato possedimento coloniale della Spagna fino al 1975. Dopo il ritiro degli spagnoli, il Marocco si trovò di fronte un movimento nazionalista che diede vita alla Repubblica araba del Saharawi, riconosciuta dall’Algeria e poi dall’Organizzazione degli Stati africani. Il Marocco è invece sostenuto da Francia, Stati Uniti e dalla Lega Araba. La situazione è controllata da una missione dell’ONU, che garantisce il rispetto del cessate il fuoco stabilito nel 1991 tra Marocco e Frente Polisario, in attesa di una soluzione definitiva, che si presenta però di difficile realizzazione.

Nella drammatica e incerta situazione del Medio Oriente, Israele ha elevato varie barriere, come i 730 km di filo spinato e cemento lungo il confine della Cisgiordania. Altre barriere per difendersi da eventuali attacchi di paesi arabi sono state costruite al confine con l’Egitto e con il Libano.

Muri contro le ondate migratorie

Nei tempi più recenti, la costruzione di muri non ha riguardato tanto il problema della difesa da attacchi esterni bellici, quanto la difesa da ondate migratorie, considerate pericolose per la sicurezza nazionale, i valori morali, l’omogeneità culturale della società. Gli esempi sono numerosi e testimoniano la difficoltà dei paesi ricchi di affrontare il problema in termini strutturali e globali, cercando cioè di eliminare le cause molteplici (miseria, guerre, persecuzioni etniche o religiose ecc.) che spingono gli individui ad abbandonare la propria terra e a migrare.

Nell’intento di impedire l’accesso di migranti dall’America Latina gli Stati Uniti a partire dal 1990 hanno iniziato la costruzione di barriere al confine con il Messico. Una risoluzione approvata dal Congresso degli Stati Uniti prevede una barriera lungo tutto il confine, che si estende per più di 3 000 km. Il costo elevato del progetto ha fatto sì che il muro sia stato però eretto solo in parte, nonostante le intenzioni espresse dal presidente Trump di accelerarne l’edificazione. Neppure un grande spiegamento di forze dell’ordine al confine, tuttavia, riuscirebbe a impedire a una massa di persone povere di andare a cercare fortuna al di là della frontiera.

Tornando all’Europa, il timore di ondate di migranti provenienti dal Medio Oriente attraverso la Turchia ha indotto il governo greco nel 2012 a erigere una barriera all’altezza del fiume Evros, al confine tra Grecia e Turchia, in Tracia. Altri muri circondano Ceuta e Melilla, enclave spagnole in Marocco, che sorgono rispettivamente di fronte a Gibilterra e a Malaga, e che sbarrano quella che viene considerata da molti africani la porta verso l’Europa. Costruite alla fine degli anni Novanta, anche con il contributo economico dell’Unione Europea, le barriere sono alte fino a 6 metri, ma non sono riuscite a contenere, in diverse occasioni, l’arrivo di centinaia di migranti.

Indubbiamente la soluzione di chiudere le frontiere, con muri o altri mezzi, risulta più facile che non cercare un approccio globale al problema dell’immigrazione. Come ha notato Maurizio Ambrosini, «i governi, incapaci di controllare la globalizzazione economica, e segnatamente la delocalizzazione delle attività produttive, hanno cercato di riaffermare la propria sovranità, nonché la loro legittimazione agli occhi dei cittadini-elettori, rafforzando i controlli […] sull’immigrazione dall’estero di individui etichettati come poveri, e quindi minacciosi o bisognosi»2.

Note

1. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992. Secondo l’autore la vittoria del sistema politico liberal-democratico sul comunismo sarebbe stata il momento culminante e definitivo della lunga evoluzione politico-sociale dell’umanità.2. M. Ambrosini, Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Cittadella Editrice, Assisi 2017, p. 8.