«Non era una donna, era un bandito». Rita Rosani, una ragazza in guerra1 è il titolo del libro che ha risvegliato il ricordo di Rita (Trieste, 20 novembre 1920 – Monte Comun, 17 settembre 1944), sepolto da anni nella mia memoria. Il suo autore, Livio Sirovich, ha ricostruito la vicenda di Rita, Medaglia d’oro al valor militare nella Resistenza, fuori da ogni retorica, in un racconto dove si intrecciano varie storie, anche quella della famiglia dell’autore, di origini tedesco-lituane da parte di madre e dalmate di padre2. Una delle sue fonti è stato un carteggio, fortunosamente ritrovato da Gianfranco Moscati, noto filatelico e collezionista di documentazione sulla Shoah.
La storia di Rita si svolge a Trieste, dove, a partire dall’inizio del XX secolo, affluiscono dai paesi dell’Est molte famiglie ebraiche per sfuggire ai frequenti e sanguinosi pogrom scatenati dai montanti nazionalismi ceco e tedesco. Si sentono più sicure in Italia, che non ritengono antisemita, e pertanto non avvertono l’avvicinarsi della tempesta, preparata dagli scontri sempre più feroci tra fascisti e nazionalisti e sloveni e croati e dall’instaurazione della dittatura3.
Il padre di Rita, Ludwig Rosensweig, originario di un villaggio della Moravia, si trasferisce, nel 1905, prima a Fiume poi a Trieste, dove trova lavoro presso la florida azienda di spedizioni degli zii con sedi in numerosi paesi dell’Impero austro-ungarico, oltre che nei principali porti del Mediterraneo. Dopo aver italianizzato il suo nome in Ludovico Rosani, sposa Rosa Strakosch, anche lei di origini morave, e dalla loro unione, nel 1920, nasce Rita.
Nel 1927 il Rosani, con qualche difficoltà derivante dal sospetto di presunte simpatie austro-asburgiche, ottiene la cittadinanza italiana. All’entrata in vigore della legislazione razziale, pur licenziato formalmente dalla ditta di cui nel frattempo è divenuto direttore, continua a lavorare, grazie all’aiuto del presidente Bruno Forti, anche lui ebreo, ma che è riuscito a evitare le conseguenze delle leggi (nell’applicazione della legislazione, venivano esentati coloro che avevano meriti patriottici). Colpisce che entrambi i padri, impegnati nella stessa società, abbiano avuto i rispettivi figli, Rita e Sergio, uccisi durante la Resistenza e insigniti della massima onorificenza.
Originari della Galizia sono invece i coniugi Salo ed Eige Nagler, il cui figlio, Giacomo, detto Kubi, si fidanzerà con Rita. Giungono anch’essi a Trieste nel 1920, dopo aver lasciato quel territorio di frontiera, in cui si mescolano le lingue, le religioni, le culture, e dove tolleranza e intolleranza si alternano quasi sempre a danno della minoranza ebraica. Per Salo, approdare in Occidente significa sottrarsi al destino dell’ebreo dello shtetl 4, minacciato costantemente dai pogrom.
Rita e Kubi vivono in questa realtà, frequentando il doposcuola del regime. Non deve stupire che il fascismo faccia presa anche tra gli ebrei, come tra il resto della popolazione. Avere la tessera del partito - ma non risulta che i Rosani e i Nagler fossero iscritti - e partecipare alle cerimonie può favorire l’integrazione di questi ebrei provenienti dall’Est e far loro superare il disagio delle origini miste. Più che verso gli ebrei, il nazionalismo italiano in quegli anni è particolarmente aggressivo nei confronti delle minoranze slave.
Nonostante il clima sempre più rovente, Rita e Kubi, di sei anni più grande, crescono in un ambiente sereno, con i genitori convinti che Trieste “la magnifica” potrà tornare a essere la città cosmopolita e pacifica di prima della guerra. Non pensano quindi di allertare i figli. La madre Rosa cresce la figlia nel solco della tradizione ebraica, attenta a farne una perfetta donna di casa. Segno di questa volontà è il libro di cucina che assieme compilano con tutte le ricette della tradizione ashkenazita5. Tra le sue amiche c’è Linuccia, figlia di Umberto Saba, la cui libreria antiquaria non è lontana dalla loro casa.
Nell’estate del 1938 i Rosani, mentre si trovano in vacanza, sono raggiunti dalla notizia del censimento cui gli ebrei di tutta Italia devono sottoporsi. È la prima misura persecutoria - le liste del censimento offriranno ai nazisti un comodo strumento per rintracciare gli ebrei - alla vigilia della pubblicazione della legislazione antiebraica. Il comune di Trieste è particolarmente attivo nello scovare gli ebrei: al 31 dicembre 1938 risultano censite 6440 persone.
La conseguenza immediata per Ludovico Rosani è la perdita della cittadinanza. Il 13 settembre viene emanato il regio decreto “per la difesa della razza nella scuola fascista” e, cinque giorni dopo, Mussolini annuncerà la nuova politica razzista del governo proprio a Trieste, la città multiculturale. Rita si ritrova con molti coetanei ebrei espulsa dalla scuola pubblica. Le Comunità ebraiche italiane organizzano allora proprie scuole, dove si ritrovano studenti e insegnanti cacciati6. Rita vi completa il suo ciclo di studi magistrali e inizia a insegnare alle elementari, prodigandosi anche nell’assistenza ai profughi7.
In questa difficile situazione, le famiglie Rosani-Rosensweig e Nagler si avvicinano, legate dallo stesso destino. E, come è usanza presso le famiglie ebraiche del tempo, viene festeggiato il fidanzamento di Rita e Kubi.
Il problema ora è cercare di emigrare. I Nagler non ne vogliono sentire parlare e Kubi, pur convinto, non se la sente di lasciare i genitori. Inoltre la Polonia ha revocato loro la cittadinanza e questo provocherà il loro internamento all’entrata in guerra dell’Italia. Infatti, il 15 giugno 1940, il capo della polizia Bocchini ordina l’internamento di tutti gli ebrei stranieri o apolidi, dai 18 ai 60 anni. Detenuti nel carcere del Coroneo, il 5 luglio vengono trasferiti nel campo di concentramento di Casoli, in Abruzzo8; Kubi invece viene tradotto nel campo di Ferramonti in Calabria9. Il figlio raggiungerà i genitori a Casoli; il 3 novembre 1943 saranno arrestati dai nazisti a Castelfrentano, per poi essere deportati il 30 gennaio 1944 ad Auschwitz.
Il rapporto tra i due fidanzati prosegue a livello epistolare. Nelle sue lettere Rita appare spensierata, allegra, un po’ superficiale, l’unico argomento serio è quello della fuga. Per Rita è vitale cercare una via di scampo, per Kubi è un argomento sul quale è inutile insistere. La loro relazione si incrina fino alla rottura definitiva e i due giovani non si rivedranno più. Non si sa neppure se Rita abbia saputo della deportazione della famiglia Nagler.
Dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943, Trieste, con Gorizia, Fiume, Pola, Udine, Lubiana, viene sottoposta alla diretta amministrazione tedesca, la Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona d’operazioni del Litorale adriatico), sottraendola alla Repubblica sociale italiana. Iniziano subito le deportazioni.
La persecuzione e l’incontro con i profughi provenienti dall’Est e i loro strazianti racconti delle uccisioni di massa spingono una ragazza “normale”, ma dotata di una forte personalità, a imbracciare il fucile e gettarsi nello scontro diretto con il nemico.
La sua prima preoccupazione è trovare un rifugio per i genitori. Rita invece entra nella Banda armata dell’Aquila, una piccola formazione partigiana, costituita dal colonnello Umberto Ricca, al quale si lega sentimentalmente10. Questi, già ufficiale di Stato maggiore, reduce dalla disastrosa spedizione in Russia, decide di prendere le armi contro l’occupante nazista e la Repubblica sociale italiana. La divisione ha la sua base in una baita sul monte Comun, in provincia di Verona, tra la Valpolicella e la valle di Stallavena.
Qui, Il 17 settembre 194411, la banda è sorpresa da tedeschi e da fascisti. Rita, ferita gravemente, viene catturata e uccisa da un repubblichino, il sottotenente Mario Scaroni, comandante della Legione giovanile Mussolini, che le spara a freddo, nonostante lei si sia arresa. Lo Scaroni verrà processato e condannato nel 1945 a vent’ anni di prigione che non sconterà perché sarà assolto per insufficienza di prove, mentre in appello, derubricata l’accusa di omicidio, verrà amnistiato. Un milite, presente all’omicidio, chiese allo Scaroni come avrebbe giustificato l’uccisione di una donna. «Non era una donna, era un bandito. Era nostro dovere», rispose.
Nel marzo 1947, alla madre di Rita viene comunicato che il Presidente della Repubblica Enrico De Nicola ha emesso il decreto di concessione della Medaglia d’oro. È una iniziativa del colonnello Ricca che non si dà pace di aver lasciato che Rita fosse uccisa. Nel marzo 1948, la madre Rosa partecipa alla cerimonia pubblica per l’attribuzione della medaglia, alla presenza del Presidente dell’Assemblea Costituente, l’On. Umberto Terracini. Questa la motivazione: «Perseguitata politica12, entrava a far parte di una banda armata partigiana vivendo la dura vita di combattente. Fu compagna, sorella, animatrice di indomito valore e di ardente fede. Mai arretrò innanzi al sicuro pericolo ed alle sofferenze della rude esistenza, pur di portare a compimento le delicate e rischiosissime missioni a lei affidate. Circondata la sua banda da preponderanti forze nazifasciste, impugnava le armi e, ultima a ritirarsi, combatteva strenuamente finché cadeva da valorosa sul campo, immolando alla Patria la sua giovane ed eroica esistenza». In copertina: foto donata il 20/11/1946 (sarebbe stato il compleanno di Rita) dalla madre di Rita Rosani a Nora Bauer, grande amica della figlia. Dall’archivio Famiglia Bauer-Vasieri di Trieste, concessa a Livio Sirovich per il suo libro e per sua intercessione all’autrice del presente articolo.
Tutte le informazioni usate per questo articolo provengono dal citato libro di Livio Sirovich, che ringrazio per essere stato anche prodigo di informazioni.
Note
1. Livio Isaak Sirovich, «Non era una donna, era un bandito». Rita Rosani, una ragazza in guerra, Cierre Edizioni, Verona 2014.
2. Livio Sirovich mi ha detto che sua madre, più o meno coetanea di Rita, poteva averla conosciuta.
3. Trieste è la città con la più grande federazione del Partito fascista che conta 14.756 iscritti, quasi un quinto di tutta la penisola.
4. Lo shtetl (traduzione in yiddish del tedesco stadtlein, “paesino”, diminutivo di stadt) indica un insediamento, cittadina o quartiere con una elevata percentuale di popolazione ebraica.
5. “Ashkenaziti” sono gli ebrei dell’Europa nord-orientale. Ashkenaz in ebraico significa “tedesco”; i primi stanziamenti ebraici avvennero infatti nella valle del Reno.
6. Interessante il fatto che il regime le riconosca e con questo anche i titoli conseguiti.
7. Rita collabora con la DELASEM, acronimo di Delegazione per l’Assistenza agli Emigranti Ebrei, con sede a Genova. L’associazione nasce nel 1939, con il consenso delle autorità fasciste, allo scopo di assistere gli ebrei profughi dai paesi sotto occupazione nazista e aiutarli a emigrare. Con l’entrata in guerra dell’Italia, privati della cittadinanza, furono internati in campi di internamento istituiti allo scopo. Tra questi Ferramonti di Tarsia in Calabria e Casoli in Abruzzo. Dopo l’8 settembre la DELASEM entrò in clandestinità continuando nella sua opera assistenziale e contribuendo alla Resistenza.
8. Situato in provincia di Chieti, fu in funzione dal luglio del 1940 al settembre 1943.
9. Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, il principale per consistenza numerica fra i campi di internamento, fu liberato dalle truppe inglesi nel settembre 1943 e chiuso nel 1945. Infatti gli internati, dopo la fuga dei nazisti, vi rimasero in attesa di poter emigrare, chi nella Palestina mandataria, chi negli USA. Altri invece si unirono agli Alleati nella guerra di Liberazione.
10. Umberto Ricca ha raccolto le sue memorie nel libro Tromba in Fa, Vangelista editore, 1969.
11. Era la vigilia del Capodanno ebraico. Nel ricordo di un suo compagno partigiano, Rita, a qualche ora dell’azione che le sarà fatale, recita lo Shemà, la principale preghiera della liturgia ebraica, “Shemà Israel, Ascolta Israele”. Primo Levi intitolerà significativamente Shemà la poesia in apertura a Se questo è un uomo.
12. La motivazione omette che era ebrea e che questa era la ragione principale della persecuzione. La partecipazione degli ebrei prima alla lotta antifascista e poi alla Resistenza fu numerosa, senza contare quanti, volontari negli eserciti alleati o inquadrati nella Brigata ebraica, combatterono per la Liberazione.