Negli ultimi decenni il dibattito intorno all’insegnamento della filosofia si è arenato intorno a una falsa alternativa, che ha opposto approccio storico e approccio tematico, storia della filosofia e “fare” filosofia o, per usare termini più recenti, conoscenze e competenze.
Da più parti si è levato l’invito a operare un forte “alleggerimento” dei contenuti storici della disciplina per puntare sullo sviluppo delle cosiddette competenze critiche e argomentative. In realtà, privato della ricchezza e complessità dello sviluppo storico, l’insegnamento della filosofia rischia di essere ridotto a una sorta di generica “educazione alla retorica”. D’altra parte, una storia della filosofia intesa come meccanica rassegna di posizioni teoriche, oltre a incoraggiare uno sconsolate relativismo, non sollecita un reale apprendimento, che esige la partecipazione attiva dello studente, in un dialogo vivo con gli autori del passato.
Chi nella scuola opera e vive si pone una domanda cruciale: in che modo la tradizione filosofica - la storia della filosofia - può essere ancora oggetto di trasmissione culturale e di insegnamento? È questo patrimonio che è in gioco (e a rischio): per preservarlo è necessario adattarlo alle esigenze di una scuola in trasformazione. In che modo è quindi possibile formare competenze filosofiche attraverso lo studio della storia del pensiero?
Innanzitutto dobbiamo chiederci che cosa significhi, al di là dell’ uso retorico che si fa del termine, partecipazione attiva dello studente allo studio della filosofia. Proviamo a declinarla in modo più puntuale:1. educazione al gusto per il dubbio, per la domanda e la problematizzazione dell’ovvio;
2. attitudine a problematizzare conoscenze, idee e prospettive mediante il riconoscimento della loro storicità e il controllo della loro coerenza interna;
3. acquisizione di procedure e strumenti per orientarsi nella realtà dando un fondamento razionale alle proprie opinioni e valutando criticamente quelle degli altri.Per ottenere tutto questo bisogna offrire allo studente l’occasione di “inciampare nei problemi” attingendo anche dal dominio della vita di tutti i giorni, ricavando dall’ambito extrafilosofico lo stimolo a interagire ermeneuticamente con lo studio del passato, per interrogarlo anche alla luce del presente.
Questi elementi costitutivi di una buona pratica della filosofia possono essere rintracciati nella disputatio in utramque partem delle antiche scholae medievali, nella quale un magister, formulando la quaestio in forma interrogativa (ad esempio “se è vero che Dio esista”), chiamava in causa un opponens (opponente), che formulava una prima risposta negativa, avvalorandola con testi autorevoli e con argomentazioni razionali, e un respondens, che forniva una contro-dimostrazione alle obiezioni. Questa appassionante partita delle idee - che usava i “muscoli” dell’intelligenza e la forza della parola - insegnava a selezionare con cura parole e concetti, a «rendere ragione» (lògon didònai), per usare l’espressione platonica, delle proprie opinioni ascoltando quelle dell’altro.
Lo scopo della disputa era l’«intima intelligenza della verità» per andare oltre «i nudi argomenti d’autorità»1. Non una relativistica rassegna di opinioni, dunque, ma una sorta di “crogiuolo” in cui, «masticata dai denti della disputa» (per usare il linguaggio del tempo), la verità prende corpo affrancandosi dalle scorie dell’errore e delle false opinioni soggettive imponendosi come una posizione non solo condivisa, ma razionalmente fondata.
A ben vedere la disputa recuperava l’originaria attitudine dialogica del sapere filosofico, il quale nasce e si sviluppa come interrogazione e confronto. Da Socrate a Platone (nella cui Accademia vigeva il «con-filosofare») fino all’ermeneutica di Gadamer, la filosofia è “messa in questione” dei luoghi comuni; fare domande in un dialogo con gli altri o in un platonico «dialogo dell’anima con se stessa».
Al paradigma pedagogico della disputa scolastica si ispira la nostra proposta di una didattica della filosofia per “questioni” che affianca il più tradizionale impianto storico nel nuovo manuale della linea Abbagnano-Fornero La filosofia e l’esistenza.
Tale proposta ha l’obiettivo di sollecitare l’interesse degli studenti, proponendo alcuni problemi filosofici in modo attualizzante e coinvolgente a partire dalla suggestione di un film o di un documento artistico, da un caso di cronaca o da un fatto storico. Le “questioni” intendono approfondire le tesi contrapposte di alcuni filosofi su uno stesso tema, incarnandole nella realtà e misurandole, per così dire, con le domande del presente. Esse interpellano la “filosofia ingenua” o “spontanea” - quella che si basa sulla consuetudine, sui luoghi comuni, su un istintivo orientamento etico e religioso-, inducendo gli studenti a scegliere - inizialmente in modo istintivo appunto - tra due possibili soluzioni di un “dilemma” iniziale. Le due opzioni sono quindi ricondotte ad altrettanti autorevoli filosofi, di cui, attraverso la citazione dei testi, si richiamano il pensiero e l’argomentazione. In tal modo ogni studente può inquadrare in una prospettiva filosofica la sua propensione spontanea, conferendo ad essa maggior rigore e consapevolezza, attingendo proprio alla storia del pensiero.
Mostrare attenzione alle nozioni, alle domande e ai bisogni di cui gli studenti sono portatori più o meno consapevoli non è una trovata seduttiva, dal momento che nasce dalla convinzione che ogni nuova conoscenza debba inserirsi su quelle preesistenti, per riorganizzarle, orientarle diversamente. La distanza tra opinione e verità (centrale nel pensiero filosofico) può essere varcata solo se istituita, riconosciuta e attraversata. E’ proprio quel percorso che forma una personalità critica e consapevole: è la razionalizzazione di valori assimilati, la capacità di integrare informazioni sviluppando abilità logiche, cognitive e valutative, “mettendo in questione” opinioni consolidate: insomma fare filosofia a partire dalla storia della filosofia.
Il docente può selezionare o elaborare “questioni” in considerazione del programma che intende svolgere, utilizzandole come strumenti per chiarire, approfondire e talvolta integrare o sostituire alcune parti dell’esposizione storica. I temi affrontati infatti possono essere concepiti come “nodi”, intorno ai quali disporre un segmento della storia del pensiero, oppure come “reti”, con cui catturare i più significativi autori di un’epoca storica, analizzando il contributo che essi hanno dato a un problema particolarmente rilevante nella vicenda della filosofia occidentale.Un esempio di questione per la prima annualità potrebbe essere la seguente:“Vivere è un dovere o una scelta libera?”
La domanda trae spunto dalla drammatica e toccante lettera che, nel settembre 2006, Piergiorgio Welby indirizzò al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per rivendicare il suo diritto alla rinuncia delle cure e a una morte naturale.
Lo studente è chiamato innanzitutto a prendere posizione scegliendo tra diverse opzioni, sulla base delle sue più o meno consapevoli convinzioni personali e di una sua istintiva visione del mondo:1. Vivere è un dovere assoluto, non negoziabile, né violabile. Secondo il linguaggio della bioetica contemporanea, questo paradigma si fonda sul principio della sacralità della vita.
2. Vivere è un diritto, di cui ci si può avvalere o meno. La vita non è sacra in sé e appartiene interamente al singolo individuo, il quale può disporne come di un bene di sua esclusiva proprietà. Si tratta del paradigma di matrice laica che insiste sul principio della qualità della vita e dell’autonomia individuale.A questo punto, lo studente scoprirà che la formulazione della questione richiama, nelle due possibili soluzioni, la posizione di due grandi filosofi del passato: Platone, secondo il quale la vita è “proprietà” degli dèi (paradigma della sacralità della vita) e Seneca (paradigma della qualità della vita), secondo cui «non vivere bonum est, sed bene vivere», «non la vita in sé è un bene, ma viver bene».2
Dal punto di vista didattico, sotto la guida dell’insegnante, la classe può essere divisa in due squadre, assegnando a ciascuna il compito di argomentare in favore o contro, ad esempio, la mozione: “Vivere è un dovere”. Per elaborare e rafforzare gli argomenti favorevoli o contrari, gli studenti potranno condurre ricerche in biblioteca o in rete.
Attraverso questo processo, il rigore del pensiero, la forza della filosofia esplicita prendono il posto delle opinioni inconsapevoli o delle credenze ereditate in modo passivo. In tal modo, lo studente verifica come, di fronte a un tema di attualità, la storia della filosofia offra strumenti indispensabili per orientarsi in modo critico di fronte alla realtà.
Oltre a quello indicato, ulteriori esempi di questioni attuali affrontabili in una prospettiva filosofica potrebbero essere: Il bene consiste nell’utile o nel dovere? (Hume vs Kant); La guerra è un male evitabile o una tragica necessità? (Kant vs Hegel); L’agire umano è condizionato o libero? (Freud vs Sartre); Esistono valori universali o tutto è relativo? (Habermas vs Lyotard).
Il metodo didattico proposto consente dunque di salvaguardare in modo concreto e fattivo l’alto profilo di una disciplina come la storia della filosofia, che rischia ridimensionamenti e indebolimenti se abbandonata ad una deriva dossografica; e d’altro canto esso può incoraggiare la maturazione di una serie di strumenti concettuali, di abilità critiche e analitiche da utilizzare anche in vista della comprensione della realtà.
La storia della filosofia si svela non come un polveroso museo che raccoglie gli arnesi vecchi del passato, ma come un giacimento di risorse, un vasto “arsenale” che mette a disposizione paradigmi, concetti, strumenti teorici, con cui leggere la realtà nella sua complessità e illuminare il presente.
La filosofia, in effetti, non è altro che l’esistenza stessa di ciascuno che si fa interrogazione, domanda, interpellando anche le idee altrui e quelle del passato. È una palestra per dare un senso alla propria esistenza, mettendo “in questione” i luoghi comuni e le semplificazioni.
Attraverso lo strumento delle “questioni” gli studenti possono mettere alla prova le loro convinzioni, scegliere in modo consapevole tra posizioni teoriche diverse, imparare ad argomentare e discutere. Wittgenstein, cogliendo il nesso tra pensiero e gioco, ha rilevato come il giocare comporti l’apprendimento delle regole. Il gioco è dunque abilità, destrezza e creatività: ma è anche disciplina, rispetto delle regole e applicazione rigorosa del «principio di carità interpretativa» nei confronti del contendente3. Insomma, tutto il contrario di ciò che vediamo troppo spesso in televisione, dove la parola è ridicolizzata e il dialogo è ridotto ad avvilente talk show, a rissa per lo più finta o anche a persuasione propagandistica. Lo stesso accade nei social con il loro compulsivo chattare che ha smarrito il valore e la dignità della parola e dove si comunica non per comprendere, ma per stupire o offendere.
Le grandi sfide globali (i drammi delle emigrazioni, del cambiamento climatico e dei disastri ambientali, la crisi della democrazia) e la complessità del presente esigono la “fatica del concetto” e l’uso della parola per comprendersi e comprendere e non per esercitare un potere sugli altri, spesso per denigrarli o farceli gregari. «Le democrazie hanno bisogno di tecnici per crescere ma se vogliono sopravvivere hanno bisogno anche di Socrate», afferma la filosofa statunitense Martha Nussbaum, nel fortunato libro intitolato Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica.4 Per formare il cittadino democratico, la Nussbaum sottolinea la centralità dello sviluppo della capacità di ragionare sui problemi politici senza delegare alla tradizione e all’autorità; la capacità di mettere alla prova le proprie convinzioni corroborandole mediante un confronto con i grandi pensatori e con le sfide sempre nuove della realtà.
NOTE
1 Tommaso d’Aquino, Quaestiones quodlibetales, a cura di R. Spiazzi, Marietti, Bologna 1954, IV, q.9, a.3
2 Per approfondire la posizione dei due filosofi si possono analizzare e discutere i seguenti testi: Platone, Fedone, 62 a-c e Seneca, Lettera a Lucilio, VIII, 70, 4-15.
3 È il principio formulato dal filosofo statunitense Donald Davidson (1917-2003), secondo il quale la conoscenza implica delle regole comuni e condivise a partire dalla seguente “tratta l’altro come te stesso”, il che significa che bisogna riconoscere all’interlocutore l’intenzione della verità.
4 Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, trad. it. di R. Falcioni, Il Mulino, Bologna 2010