«La filosofia è quella cosa con la quale, e senza la quale, tutto rimane tale e quale». Una ventina di anni fa mi è capitato di sentire un illustre accademico che presentava un libro (mio) esordendo con quella che a lui appariva una evidenza. L’illustre accademico coglieva un punto essenziale: replicare a quella frase che circolava da secoli, se non da millenni (il momento in cui si è formata è sicuramente remotissimo) è stato, ripensandoci, lo scopo di quello che ho fatto in quarant’anni di professione filosofica.
Da una parte, certo, a tutto, a cominciare dalla vita umana, si può applicare l’adagio che affratella storicamente studenti e professori. C’è qualcosa di intimamente futile nell’occuparsi della giustizia, della pace sociale, del progresso tecnologico ed economico, dello sviluppo della sensibilità rispetto a questioni di genere. Tanto, tutto resta tale e quale perché prima o poi l’universo imploderà. Ma proprio per questo, rispondo io e con me tanti altri filosofi, si può, nella contingenza, comprendere e migliorare ciò che dipende da noi; e perciò, sin da tempi remoti, è sorta la filosofia che – badate bene – poteva anche non sorgere, prova ne sia che ci sono culture rispettabilissime che hanno seguito altre vie (per esempio, il rito o il mito). Proprio perché tutto, a cominciare da noi, è destinato a finire, è bello e utilissimo capire, nel frattempo, che cosa c’è nel mondo, che cosa sappiamo di quello che c’è, e che cosa facciamo e possiamo fare rispetto a questo mondo.
Dire quello che c’è è il primo compito della filosofia, è l’Ontologia, la dottrina dell’essere. Quasi tremila anni fa i protofilosofi scrivevano trattati tutti uguali, intitolati Sulla natura, e dicevano appunto ciò che veramente c’è nel mondo, al di là delle sue apparenze molteplici. C’è chi diceva che era fatto in ultima istanza di acqua, chi di quattro elementi fondamentali, chi di atomi; millenni dopo la scienza ci ha mostrato in che senso quello degli atomi avesse ragione, ma come anche gli altri avessero sviluppato un’ intuizione decisiva, e cioè che dietro alle apparenze ci sono delle essenze comuni.
Ma che cosa sappiamo di quello che c’è? E, peggio ancora, che cosa crediamo di sapere, e non sappiamo? Sono gli interrogativi del secondo compito e della seconda parte della filosofia, l’Epistemologia. Che appaiono particolarmente necessari (alla faccia del “con la quale/senza la quale”) nell’epoca della post-verità e delle fake news. Se due anni fa mi è capitato di scrivere Postverità e altri enigmi è proprio perché credo che un compito essenziale della filosofia consista, come diceva Agostino, nel fare la verità, il che significa non smentire le singole fake news (è anche utile, ma può e deve farlo ogni umano di buona volontà), bensì cercare di comprendere quali sono la struttura, la dinamica e gli interessi che rendono possibile la genesi della post-verità e delle sue conseguenze: la pretesa di aver ragione “a prescindere” che caratterizza gli umani dalla notte dei tempi, la possibilità offerta dal web di crearsi delle camere di risonanza in cui ci si dà ragione a vicenda, dunque il venir meno della verità come possesso comune.
Quale sia questa struttura, ce lo dice una terza parte della filosofia, la Tecnologia, sorella incompresa di Ontologia e di Epistemologia. Letteralmente, una Cenerentola, come nell’opera di Rossini, perché deve fare tutto mentre le altre siedono oziando: «Cenerentola vien qua. Cenerentola va’ là. Cenerentola va’ su. Cenerentola vien giù./ Questo è proprio uno strapazzo! Mi volete far crepar? Chi alla festa, chi al sollazzo: ed io resto qui a soffiar». Ma, commenta il coro, si avvicina «il gran punto di trionfar». Gran parte del mondo esiste indipendentemente dagli umani, ecco cosa ci insegna l’Ontologia e il realismo che necessariamente porta con sé; una parte sempre più grande del mondo, umano e sociale, viene compreso dall’Epistemologia. Però i bisogni della vita impongono di agire e di risolvere problemi con un fare che precede il sapere ma che, precedendolo, lo permette.
«Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripede?». È il primo enigma di cui abbiamo testimonianza storica, ed è l’enigma che, nel mito a cui fanno riferimento Eschilo e Sofocle, la sfinge pone ad Edipo. Che solo (e attraverso l’autoriflessione, perché la risposta richiede un’autoconoscenza dell’umano) risponde che quell’animale è l’uomo, che da bambino gattona, da adulto cammina, e da vecchio si appoggia a un bastone. Per quel che concerne la nostra storia, è un passaggio capitale, perché mette nella definizione dell’uomo un apparato tecnico, il bastone. L’uomo è l’animale capace di tecnica, nella fattispecie di appoggiarsi a un bastone (baculum), in difetto del quale è solo natura, ossia imbecille (in-baculum).
«L’uomo è il più sapiente di tutti i viventi perchè ha le mani» e dunque può sviluppare delle tecniche che lo rendono intelligente. Se avesse le ali ma non le mani, come gli uccelli, o se non avesse né mani né altro, come i serpenti, non leggereste queste parole, e nessuno le avrebbe mai pensate.
«Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente [del discorso scritto] quello che viene scritto mediante la conoscenza nell’anima di chi apprende». Così Platone nel Fedro, dove ha luogo una condanna della scrittura, accusata di essere un farmakon, un rimedio contro la memoria che è insieme un veleno per la memoria, perché certi di avere delle annotazioni scritte cesseremo di esercitarla. E poi gli scritti vanno a destra e a manca, senza controllo dei loro autori, e possono essere fraintesi. Peggio ancora, le persone possono illudersi di sapere attraverso la semplice lettura di libri, cosa che per Platone non può essere: devono andare a scuola da lui, all’Accademia. Ma quando Fedro chiede quale sia la giusta alternativa a quel veleno che è la scrittura, Socrate gli risponde come abbiamo visto: è il logos scritto nell’anima, dunque una forma di scrittura e di tecnica interna che si contrappone (ma in effetti mima) quella esterna. Come dire che la condanna della scrittura in quanto tecnica viene condotta attraverso il richiamo alla definizione classica della mente come tavoletta su cui si scrive, dunque come apparato tecnico; e il tutto in un testo scritto che è giunto sino a noi e che oggi troviamo in pochi secondi sul web.
«Anassagora sostiene che l’uomo è il più intelligente degli animali per il fatto che ha le mani; è ragionevole affermare, invece, che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente». Così Aristotele in Le parti degli animali. L’uomo ha una mano perché è il più intelligente degli animali. Gli uccelli e i serpenti non hanno le mani perché sono troppo stupidi per smanettare sul web: così, ammodernata, l’obiezione di Aristotele ad Anassagora. Che avrebbe buon gioco a replicare: sei sicuro che smanettare sul web sia intelligente? Anche in Aristotele, come in Platone, la condanna della tecnica rispetto allo spirito ha un controcanto significativo, il fatto che l’anima (nel Perì psychès) sia paragonata a una mano: «L’anima è come la mano, dal momento che la mano è lo strumento degli strumenti, e l’anima è la forma delle forme». Nello stesso trattato, così come nei trattati sulla memoria e la reminiscenza, ritorna l’immagine della mente come tavola scrittoria, o come blocco di cera in cui si incide la forma dell’anello, ossia il pensiero e l’impressione. Una volta di più, la mano come strumento della tecnica viene subordinata allo spirito, che però si rivela anche lui una specie di mano, perché afferra e comprende gli oggetti senza identificarsi con essi, proprio come si può afferrare una forchetta o un libro senza diventare forchetta o libro.
A un certo punto, nelle Confessioni Agostino si pone una domanda elementare, quasi comica: perché mi confesso a Dio che sa tutto? La risposta è illuminante: Agostino dice: «voglio fare la verità nel mio cuore e di fronte a te in confessione, e per iscritto di fronte a molti testimoni». Intende che la verità si fabbrica così come si fabbrica la post-verità? Certamente no, difficile pensare di spacciare delle post-verità a Dio. Intende piuttosto che la verità non è solo un possesso interiore, è anche una testimonianza che si rende in pubblico e che ha un valore sociale e una dimensione tecnica, richiede un fare, un’azione, che è anzitutto quella di essere cercata, poi chiarita, quindi espressa, diffusa, testimoniata e conservata.
«Gli animali sono semplici macchine. Solo l’uomo ragiona e parla». Sarà. Ma se una macchina può comportarsi come se avesse un’anima, e questo è il caso degli animali per Cartesio, come possiamo escludere che anche gli uomini siano macchine, e che anzi lo siamo noi stessi? Tanto è vero che la riduzione degli animali a macchine avviata da Cartesio evolve di lì a non molto, con La Mettrie, nella teorizzazione dell’uomo macchina.
«Come la Metafisica ragionata insegna che homo intelligendo fit omnia, così questa Metafisica fantasticata dimostra che homo non intelligendo fit omnia», leggiamo nella Scienza Nuova. Chi ha detto che gli umani siano intelligenti? Nascono come bestioni, più stupidi e più grossi dei gatti, ma attraverso la tecnica, poco alla volta, costruiscono un mondo sociale e si inciviliscono. L’intelligenza e il sapere non sono il presupposto della tecnica, bensì il risultato (come nel gioco dell’oca, si torna ad Anassagora).
«Questo schematismo del nostro intelletto nei riguardi dei fenomeni (…) è un’arte nascosta nelle profondità dell’anima umana». Ecco uno dei passi più famosi ed enigmatici della Critica della ragion pura. Perché i concetti si applichino agli oggetti, occorrono degli schemi, degli apparati tecnici che siano in grado di mediare tra il carattere astratto e generale del concetto di “cane” e questo cane particolare e concreto. E per l’appunto Kant si inventa il più strano degli apparati tecnici, lo schema, un prodotto dell’immaginazione che farebbe, appunto, da mediatore tra astratto e concreto. La descrizione è letteralmente quella di uno strumento, tanto è vero che Kant lo definisce un “metodo di costruzione”, qualcosa come il software del mio cellulare che mi permette tanto la costruzione (io chiedo la tale canzone e lui me la suona), quanto la sussunzione sotto concetti (io sento una canzone, e lui me ne dice il titolo).
Apriamo la Fenomenologia dello spirito, paragrafo sulla fisiognomica: «La mano è l’animato artefice della felicità dell’uomo; di lei può dirsi ch’essa è ciò che l’uomo fa, che nella mano, organo attivo del suo perfezionarsi, l’uomo è presente come forza animatrice; ed essendo originariamente il suo proprio destino, la mano esprimerà questo in sé». Insomma, è con la mano che abbiamo in pugno il nostro destino. Ma la mano, prosegue Hegel, come scrittura (e in analogia con la voce), è altresì espressione dell’individualità, esteriorizzazione dell’interno: «I semplici tratti della mano, e così il timbro e il volume della voce come l’individuale determinazione del linguaggio – e a sua volta il linguaggio stesso in quanto, ricevendo dalla mano un’esistenza più salda di quella che non avesse la voce, diviene scrittura, e precisamente manoscritto - tutto ciò è espressione dell’interno». La ripresa letterale ed esplicita della formula aristotelica della mano come “strumento universale” si trova poi nell’Enciclopedia, § 411.
«Lo sviluppo dell’individuo sociale si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza», leggiamo nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Gli umani accettano le loro catene, per esempio le catene di montaggio. Ma, come le hanno accettate, così possono spezzarle, perché non hanno nulla da perdere, tranne le loro stesse catene, leggevamo nel Manifesto. Dubbio iperbolico e concretissimo: ma se le catene sono tutto ciò che abbiamo, cosa ci resta una volta che le abbiamo spezzate? Infatti il Marx maturo propone una strategia diversa: l’uomo-macchina non è semplicemente servile, perché le macchine producono beni che non avrebbero senso senza quella caratteristica tipicamente umana che è il consumo. Quanto più l’individuo si sviluppa (e questo avviene essenzialmente attraverso il lavoro), tanto più consuma, quanto più evolve spiritualmente. È Hegel che ritorna in Marx: una tecnica evoluta e liberata, la mano può essere «l’animato artefice della felicità dell’uomo».
«Cerchiamo di imparare a pensare. Forse pensare è semplicemente la stessa cosa che costruire un armadio. È comunque un mestiere (Hand-Werk), un’opera della mano. La mano è qualcosa di particolare. La mano appartiene secondo la rappresentazione abituale al nostro organismo corporeo. Ma l’essenza della mano non si lascia mai determinare come un organo prensile del corpo, né spiegare sulla base di tale determinazione. Anche la scimmia ad esempio possiede organi prensili, ma non per questo ha le mani. La mano si distingue da ogni altro organo prensile, come zampe, artigli, zanne, infinitamente, ossia tramite un’abissalità essenziale. Solo un essere parlante, ossia pensante, può avere le mani e compiere così, attraverso la manipolazione, l’opera della mano.» La scimmia, dunque, non potrebbe comprare un telefonino, non perché sprovvista di denaro e di linguaggio, bensì perché priva di mani, o almeno di una mano. Solo l’uomo possiede una Hand, dunque solo l’uomo ha diritto a un Handy, come si chiama, in tedesco e con un anglismo che avrebbe raccapricciato Heidegger, il telefonino.
«Di ciò di cui non si può teorizzare bisogna narrare», ha scritto Umberto Eco spiegando perché, a un certo punto, ha subito la tentazione della prosa. L’idea di “opera aperta”, e ancor più l’attenzione alla dimensione tecnica del pensiero e della comunicazione, che è stata al centro della ubiqua attività culturale di Eco, trova le proprie radici proprio in un nesso essenziale tra filosofia e tecnologia. La battuta sulla narrazione era una ripresa del detto di Wittgenstein «di ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere», ma poneva l’attenzione sulla circostanza per cui il fare (nella fattispecie, la narrazione) può trovare delle vie d’uscita rispetto ai vicoli ciechi in cui può cacciarsi la teorie, così che la tecnica ci porta sempre al di là di se stessa.
L’uomo fa tutto senza comprendere, lo abbiamo visto, diceva Vico criticando Cartesio e la sua pretesa di possedere preliminiarmente idee chiare e distinte. Ma non intendeva che si dovesse restare bestioni. Pensava, illuministicamente, a un progresso che è il rischiaramento della forza enorme della Tecnologia, della vera matrice della storia e dell’umanità. Pensava che ci volesse, a questo scopo, una Scienza Nuova, e il suo proposito è sempre attuale: se vuoi capire l’Ontologia e l’Epistemologia, devi partire dalla Tecnologia.
È per questo che quindici anni fa ho scritto Dove sei? Ontologia del telefonino, considerandolo non solo una macchina per parlare, come suggerisce il nome, ma una macchina per scrivere e per registrare, e dunque una macchina per costruire la realtà sociale, il mondo nuovo in cui ci troviamo tutti. È per questo che ho intitolato “Scienza Nuova”, e dedicato a Umberto Eco, Vico del Novecento, l’Istituto di Studi Avanzati che, con amici e colleghi, stiamo elaborando tra il Politecnico e l’Università di Torino.
Ed è ancora per questo che, con altri amici, ho scritto il nuovo manuale di filosofia Pensiero in movimento (Paravia, 2019): il movimento è l’essenza della tecnica ma anche (lo diceva già Aristotele) del pensiero. In una età più in movimento di altre, quando tutto cambia, l’abitudine non aiuta, e bisogna ricorrere a quella competenza del futuro che, alla faccia del “con la quale/senza la quale”, è la filosofia.