Filippo veniva spesso richiamato ad essere un pò più serio. E lui rispondeva: "Non vorrai mica che dicano che Filippo è un santo?".
Il suo carisma di santità fu soprattutto l'allegria tanto che è il patrono del buonumore.
Grazie a lui i romani ritrovano la loro storia cristiana, con la cosidetta "visita alle sette chiese" (San Pietro, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, San Paolo, San Lorenzo, Santa Croce in Gerusalemme, San Sebastiano) da lui ideata e organizzata. Si fa in tempo di carnevale o a Pasqua o durante gli anni del Giubileo.
Da ragazzo, a Firenze, ha studiato presso i domenciani e a 18 anni è andato a San Germano - oggi Cassino - da uno zio commerciante, con la prospettiva di ereditarne poi mestiere e sostanze. Ma ci rimane poco: lo attira Roma, dove va a studiare all'Università la Sapienza. E qui resiste fino a 24 anni, dopodichè vende i libri e si fa battitore libero della fede predicando nelle strade, negli ospedali e nelle prigioni.
E' un semplice laico colto, focoso e ilare, amante della musica, che con altri laici fonda la Confraternita della Trinità, per dare un sorriso a malati e convalescenti in abbandono. A 29 anni, il giorno di Pentecoste mentre era in preghiera all'interno delle catacombe di S. Sebastiano Dio gli apparve in forma di globo di fuoco che penetrò nel suo corpo attraverso la bocca e frantumò due costole del lato sinistro, la parte del cuore. Nel 1551 riceve il sacerdozio e, in certo modo la sua opera viene regolarizzata. Inoltre, può confessare. E' chiamato da tutti, ricchi e poveri, ignoranti e colti. Innumerevoli migliaia in quarant'anni del suo sacerdozio hanno a lui aperto la loro coscienza: egli possedeva il dono di rimandarli come uomini nuovi.
Con le sue trovate comiche, "Pippo bono" (così lo chiamavano i monelli a Firenze) divertiva ed edificava tutta Roma, compresi papi e cardinali.
Grandissima fu l'attrazione che Filippo esercitò sui giovani, specialmente sugli irrequieti monellacci di borgata che praticavano l'arte della strada.
Certi angoli di Roma si leccavano ancora le ferite quando Filippo Neri vi giunse, intorno al 1533. Il Sacco dei Lanzichenecchi del 1527 aveva lasciato i segni: porzioni significative della città e molti dei suoi 50mila abitanti giacevano ancora storditi su strade semicoperte da una campagna che s’era presa la sua selvaggia rivincita sulla nuova urbanizzazione incominciata circa un secolo prima. Facevano da contrasto con questa desolazione i fasti della mondanità rinascimentale, e carri allegorici salutarono l’elezione al soglio pontificio del romano Paolo III Farnese, nell’ottobre 1534.
Filippo, che aveva circa vent’anni, e negli occhi le dolci armonie di Firenze, sua città natale, fuggiva da un futuro di “mercatante” che il padre aveva disegnato per lui. Giungeva pellegrino a Roma, per essere libero di stare vicino alle memorie apostoliche e dei martiri, pure quelle semiabbandonate all’impeto di una natura inaddomesticata.
Una volta arrivato, si stabilì a Sant’Eustachio, nei pressi del Pantheon, in casa di un concittadino, ai figlioli del quale «faceva dei latini», dava cioè ripetizioni di grammatica, per guadagnarsi il pane e l’alloggio. Per il resto della giornata «stavasene egli quanto poteva il più solitario, e senza compagnia d’altrui», fuori casa, «per le sue divozioni», scrive uno dei suoi primi biografi, l’oratoriano Antonio Gallonio. Filippo visitava le Sette Chiese e, specialmente di notte, le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano, a quel tempo deserte e malsicure pure di giorno.
Naturalmente, la solitudine del giovane Filippo non era così radicale come certi aforismi biografici tendono a disegnarla: divenne infatti subito amico dei domenicani del convento e della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, nel cui coro recitava il mattutino e la compieta; fu compagno dei gesuiti nel terribile inverno del 1538-39, e con loro girò per la città a raccogliere infermi e poveri vessati dalla fame.
Alla fine degli anni Quaranta del secolo praticava il quartiere dei Banchi, poco lontano da Ponte Sant’Angelo, dove era diventato amico dei cassieri e dei ragazzi commessi nei fondachi, ai quali, con la sua bella allegria, spesso ripeteva: «Beh, fratelli, quando volemo cominciare a far bene?». E sempre in quel periodo andava a pregare nella chiesetta di San Salvatore in Campo, alla Regola, dove fondò, insieme ad altri, la Compagnia della Santissima Trinità, per l’assistenza ai pellegrini che si sarebbero riversati nell’Urbe nell’imminente anno giubilare del 1550.
In quella Compagnia incontrò padre Persiano Rosa, cappellano della chiesa di San Girolamo della Carità, vicino a piazza Farnese, che divenne il suo confessore. E a San Girolamo incominciò a ritrovarsi abbastanza regolarmente con quei compagni - giovani apprendisti e impiegati nei banchi, ma anche gente semplice, figli di artigiani e bottegai, notai e miniatori - che gli si erano stretti attorno, contagiati dalla sua allegria cristiana. Era quella la «prima sementa dell’Oratorio», come la definì il Gallonio.
Filippo divenne prete il 23 maggio 1551. Gallonio racconta che da quel giorno iniziò a trovarsi «ad ogn’hora... al confessionario, scendendo ogni mattina all’alba nella chiesa, dove lungamente dimorando udiva con allegrezza quanti a lui venivano».A San Girolamo continuava con i suoi amici il dialogo semplicissimo, fatto, scrive Rita Delcroix (Filippo Neri, il santo dell’allegria, Roma 1989), di «domande e risposte sulla fede, sulla bellezza e la virtù e concluso con una spiegazione e un’esortazione, che Filippo compiva fraternamente, pianamente. Si usciva poi insieme per le strade di Roma...». Filippo trascorreva tempo con i suoi ragazzi. Stava con loro. Qualcuno però si lamentava della “troppa allegrezza” dei suoi giovani. E lui tranquillamente diceva: «Lasciateli, miei cari, brontolare quanto vogliono. Voi seguitate il fatto vostro. State allegramente: non voglio scrupoli, né malinconie; mi basta che non facciate peccati». E quando doveva calmarli un po’ diceva loro: «State buoni... se potete».
Arrivava anche a mendicare per le strade e alle porte dei più sontuosi palazzi per testimoniare l’umiltà ai suoi amici. Un giorno, un signore, infastidito dalle sue richieste, gli diede uno schiaffo. Filippo non si scompose: «Questo è per me» disse sorridendogli «e ve ne ringrazio. Ora datemi qualcosa per i miei ragazzi».
Il 1564 fu l’anno in cui al riluttante “Pippo buono” venne “imposta” dal suo amico cardinale Carlo Borromeo la rettoria di San Giovanni dei Fiorentini, in via Giulia, quasi sulle sponde del Tevere. Là il santo destinò alcuni suoi seguaci diventati preti in quegli anni. Lui però se ne restò a San Girolamo.Poi, il 15 luglio 1575, Gregorio XIII, con la bolla Copiosus in misericordia, concedeva al «diletto figlio Filippo Neri, prete fiorentino e preposito di alcuni preti e chierici», la chiesetta parrocchiale di Santa Maria in Vallicella, nel rione Parione, dedicata alla Natività di Maria, ed erigeva canonicamente «una Congregazione di preti e chierici secolari da chiamarsi dell’Oratorio».
In quello stesso 1575 si iniziò la ricostruzione della chiesetta. Filippo, che non voleva assolutamente spostarsi, lasciò San Girolamo per questa nuova dimora solo nel 1583. Louis Bouyer (La musica di Dio. San Filippo Neri, Milano 1980) racconta che «ci volle l’intervento personale del Papa per spingerlo a lasciare il suo vecchio San Girolamo e a trasferirsi con la Congregazione che lo proclamava suo unico superiore. Se si riuscì a forzargli la mano, egli si rifarà organizzando una splendida mascherata. I discepoli più fedeli dovettero attraversare la città sotto i lazzi di tutti, ciascuno trasportando con gran cura un pezzo della miserabile mobilia di Filippo».
Filippo Neri, tuttora popolarissimo a Roma e ovunque, ha istituito l'Oratorio, come genere musicale, ha riorganizzato la liturgia e la pietà popolare. A Roma ha costruito chiese come la bellissima Santa Maria alla Vallicella. E quando il Papa gli ha mandato i vestiti da cardinale per annoverarlo tra i porporati, glieli rimandò indietro perchè, a suo dire, gli stavano troppo stretti...
Muore a Roma il 26 maggio del 1595. Il suo sepolcro è custodito nella Chiesa da lui restaurata e ingrandita, che i romani continuano a chiamare Chiesa Nuova.