La tregua di Natale. Lettere dal fronte
Autore: Alberto Del Bono (a cura di)
Editore: Lindau, 2014
Pagine: 181
L’8 gennaio 1915 il “Daily Mirror” pubblicava una foto scattata in una zona imprecisata del Fronte occidentale, corredandola della seguente didascalia: “Un gruppo storico: soldati inglesi e tedeschi fotografati insieme”. Un’immagine difficile da figurarsi, se si pensa al contesto in cui essa deve essere collocata: la foto in questione risale infatti al 25 dicembre 1914 e fu scattata proprio in quella zona d’Europa in cui dal 1914 al 1918 si susseguirono battaglie sanguinosissime che, stando ai dati in possesso degli storici, causarono la morte di 500.000 soldati inglesi e di altrettanti soldati tedeschi.
Com’è possibile, quindi, che una foto ritragga veramente “insieme” soldati inglesi e tedeschi? A costituire una prova determinante del fatto che ciò che accadde il giorno di Natale del 1914 sul Fronte occidentale sia una vicenda dotata di concretezza storica sono in realtà non solo le foto, ma soprattutto le lettere private scritte dai soldati inglesi, che oggi è possibile leggere tradotte in italiano nel volume curato da Alberto Del Bono.
La cosiddetta “tregua di Natale” – con questo nome è passata alla storia la tregua che soldati inglesi, francesi e tedeschi decisero di mettere in atto per il giorno di Natale sul Fronte occidentale – non è una leggenda e non è soltanto un bel ricordo, ma un fatto storico realmente accaduto, di cui abbiamo notizia grazie alle parole di chi, quella tregua, l’ha vissuta in prima persona. A permettere alla tregua di Natale di non essere dimenticata e di assumere una forma netta e ben definita sono state l’intraprendenza e la passione dei giornalisti inglesi Alan Cleaver e Lesley Park, che hanno reso possibile la nascita del progetto Operation Plum Pudding, sfociato nella pubblicazione, nel 1999, del libro Plum pudding for all, ormai fuori stampa: grazie alla collaborazione delle associazioni inglesi di storia locale e di alcuni giornali britannici, infatti, i due giornalisti sono riusciti a raccogliere più di cento lettere contenenti il racconto dei fatti accaduti tra la notte della Vigilia e il giorno di Natale del 1914 sul Fronte occidentale.
A consentire alle lettere di essere recuperate è stata la buona abitudine presa dai giornali britannici durante la Prima guerra mondiale di pubblicarle. Se da un lato la censura cui le lettere furono sottoposte ci impedisce di individuare con certezza i luoghi in cui la tregua di Natale si verificò, dall’altro essa non sembra essere stata particolarmente dura sul resto del loro contenuto, che offre la possibilità ricostruire con precisione la vicenda. Secondo quanto raccontato dai soldati inglesi, il giorno di Natale gli eserciti nemici presero accordi non ufficiali per attuare una tregua di 24 ore. I soldati tedeschi addobbarono gli alberi con candele e intonarono canti natalizi e regalarono a inglesi e francesi sigarette e tabacco, ricevendo in cambio cioccolato.
Le lettere portano inevitabilmente l’impronta personale di chi le ha scritte, ma il senso di meraviglia e stupore che da esse traspare ne costituisce il comune denominatore. Non poteva, del resto, non suscitare meraviglia il fatto che i giovani combattenti di eserciti contrapposti, a cui ogni giorno veniva ricordato che il loro principale scopo era quello di uccidere e mostrare al nemico il volto della morte, decidessero spontaneamente di uscire dalle trincee e di avventurarsi nelle “terra di nessuno”, non per compiere un attacco, ma per stringere la mano a coloro dei quali, pochi istanti prima, avrebbero potuto essere i potenziali carnefici. La tregua di Natale dette la possibilità ai soldati di guardare negli occhi il proprio nemico e di riconoscere, proprio in quegli occhi, le loro stesse paure, le loro stesse speranze e soprattutto il loro stesso amore rivolto a un Dio che aveva deciso di farsi Uomo.
Il libro presenta le lettere divise in base alla contea inglese di origine dei soldati che le hanno scritte: ciò permette allo spessore storico dei documenti pubblicati di essere ulteriormente corroborato, poiché le parole dei soldati trovano reciproca conferma nelle lettere dei propri commilitoni. Il libro risulta particolarmente utile per far comprendere che alla Storia non appartengono di diritto soltanto i grandi personaggi di cui siamo solitamente tenuti a ricordare i nomi e le imprese, ma anche persone comuni, che solo per caso vengono scritturate per interpretare il ruolo di protagonisti in eventi storici degni di essere ricordati. In classe, il libro si presta come strumento che favorisce l’interdisciplinarietà. La lettura di alcune lettere svolta insieme agli alunni può infatti essere usata per la disciplina di Storia come stimolo iniziale per introdurre la Prima guerra mondiale.
Nell’ambito di un laboratorio di scrittura, inoltre, le lettere che presentano un contenuto particolarmente significativo possono essere scelte e presentate in classe come modello che gli alunni possono seguire per scrivere una lettera personale assumendo il punto di vista di un soldato al fronte. La lettura integrale della lettera del soldato Heath, infine, che suggella l’intero volume e che si caratterizza sia per la complessità formale, sia per la profondità e la rilevanza delle riflessioni in essa contenute, può infine essere corredata da domande di analisi e comprensione del testo ed essere utilizzata come verifica formativa.
Fuori fuoco
Autrice: Chiara Carminati
Edizioni: Bompiani, 2014
Pagine: 204
Quale punto di vista migliore, per osservare per la prima volta lo scenario della Prima guerra mondiale, come sono chiamati a fare gli alunni di una classe terza della scuola secondaria di I grado, di quello offerto da Chiara Carminati nel libro Fuori fuoco?
E per introdurre lo studio della Grande Guerra e presentarne in classe i principali aspetti, quale strategia più efficace di quella rappresentata dalla lettura di un libro che, con tratti netti e decisi, riesce a spiegare che “la guerra la combattono gli uomini ma la perdono le donne”? Il punto di vista di cui i ragazzi possono servirsi per avere una visione disincantata e vivida della Prima guerra mondiale, e in particolare di quella combattuta sul Fronte meridionale, è quello di Jole, la giovane protagonista: al cuore, all’intelligenza e ai sentimenti di un’adolescente, infatti, l’autrice affida il compito di raccontare le vicende che, dal 1914 al 1918, hanno segnato profondamente la storia d’Italia e non solo. E se le istantanee scattate dalla Storia di solito lasciano “fuori fuoco” i soggetti femminili, proprio questi ultimi occupano invece un posto privilegiato nel libro.
È infatti una linea familiare tutta femminile, costituita dai personaggi appartenenti a ben due generazioni, quella di cui Chiara Carminati si serve per dimostrare che la Vita, anche quando viene messa a rischio dai protagonisti della guerra, ovvero dagli uomini, è invece sempre tenuta al sicuro, anche nelle situazioni più difficili, proprio dalle donne. Lo scoppio di una guerra che per la prima volta nella storia coinvolge il mondo intero sembra all’inizio non avere conseguenze sulla vita di Jole, che con il padre Domenico, la madre Antonia e i due fratelli più grandi, Francesco e Antonio, continua a lavorare in territorio austriaco per un mese, fino a quando i datori di lavoro non sono costretti a chiedere all’intera famiglia di tornarsene in Friuli per “motivi di sicurezza”.
La parola “ritorno” ha un suono dolce per Jole: il rientro in Italia e nel suo paese di origine, Martignacco, le consente infatti di riabbracciare la sorellina Mafalda. Ma la normalità riconquistata a fatica - la disoccupazione e la povertà rendono la vita a Martignacco difficile - ha una breve durata: subisce infatti una brusca battuta d’arresto con la scelta dell’Italia di seguire la pressante volontà degli Interventisti e di compiere un passo che la porterà alla conquista delle “Terre irredente”, non prima di aver pagato, tuttavia, un prezzo altissimo in termini di vite umane. Con l’ingresso in guerra dell’Italia la famiglia di Jole deve seguire la triste strada della separazione e dell’allontanamento dalle persone care: il padre e il fratello maggiore vengono arruolati, mentre il giovane Francesco decide di partire per il fronte come volontario.
Ma che la guerra “arruola” anche le figure femminili e le obbliga comunque a combattere, pur senza chiedere loro di indossare un’uniforme e di imbracciare un fucile, è ciò che accade alla madre di Jole a farlo comprendere: il deciso rifiuto delle avances di un soldato italiano, infatti, le costano l’accusa di spionaggio e la conseguente condanna al confino a Firenze. Al momento dell’arresto Antonia ha appena il tempo di vergare frettolosamente un nome e un indirizzo su un biglietto e di consegnarlo a Jole, insieme alla raccomandazione di non separarsi mai dalla sorellina.
Rimasta completamente sola, Jole non può fare altro che seguire le brevi coordinate lasciate dalla mamma: recarsi a Udine con Mafalda in cerca di “zia Adele”, che insegnerà loro che per vedere non servono necessariamente gli occhi perché basta il cuore. Ma sono l’isola di Barbana e un voto fatto alla Vergine Maria a permettere alla trama femminile della famiglia di Jole di essere nuovamente tessuta, nonostante il tempo e una nebbia fitta di dolore e incomprensione sembrino averla logorata in modo irrimediabile: proprio a Barbana, infatti, Jole e la sorellina ritrovano Natalia, la nonna che non sapevano nemmeno di avere e il cui nome esprime la forza del lavoro svolto per una vita intera. La fuga da un esercito nemico affamato di vendetta e di morte non riesce a fermare il flusso del perdono e della vita: dopo la disfatta di Caporetto e la rovinosa ritirata che mette insieme alla rinfusa cose, persone e vicende personali, sarà Jole a dar prova di poter utilizzare le proprie mani svolgendo lo stesso lavoro della nonna: la levatrice.
Le vicende personali di Jole si incastonano su una base storica ben descritta nel libro, che non lascia nell’ombra gli aspetti più dolorosi della Prima guerra mondiale combattuta in Italia, come l’esplosione di uno dei più grandi depositi di munizioni a Udine, la disfatta di Caporetto, l’uso impietoso della censura e della propaganda. Poiché consente di delineare il profilo della Grande Guerra, permettendo quindi di anticiparne o accompagnarne lo studio, il libro si presta particolarmente bene a essere letto in classe, anche ad alta voce.
L’Italia in guerra. 1915-1918. Niente sarà come prima.
Autore: Massimo Birattari
Edizione: Feltrinelli, 2015
Pagine: 158
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Così dichiara l’articolo 11 della Costituzione italiana. E il motivo per cui i Padri della Costituzione hanno deciso di utilizzare il verbo “ripudiare”, con tutta la sua forza espressiva, deve essere ricercato nella storia dell’Italia, che ha visto con i propri occhi, in ben due conflitti mondiali, che cosa sia la guerra. Ne ha visto il volto truce e terribile, quello di un mostro che non può non suscitare orrore e sgomento, che non può che essere odiato e “ripudiato”. Guardare in faccia la guerra, e in particolare la Prima guerra mondiale, per giungere ad un rifiuto netto e categorico per ogni tipo di conflitto armato, è la possibilità offerta al lettore da Massimo Birattari e dal suo libro “L’Italia in guerra. 1915-1918.
Niente sarà come prima”, edito da Feltrinelli. Rivolto a un pubblico di giovani lettori, e corredato dalle illustrazioni di Matteo Berton, il libro risulta essere particolarmente accattivante anche dal punto di vista grafico, oltre che contenutistico. L’autore è riuscito a miscelare con abilità e maestria gli ingredienti necessari per attirare l’attenzione degli adolescenti quando si decide di affrontare argomenti di storia: una narrazione rapida e incalzante e un’adeguata dose di testimonianze.
I fatti sono narrati in modo chiaro e esaustivo seguendo la linea del tempo, dal 28 giugno 1914, giorno dell’attentato di Sarajevo, fino alla firma del Trattato di Versailles. A raccontare gli episodi più significativi non è tuttavia solo la voce dell’autore, ma anche quella di chi, in diari personali e lettere private, ha lasciato la propria testimonianza al futuro. Grazie alle parole di giovanissimi soldati provenienti da ogni parte d’Italia, che un destino beffardo e imperscrutabile ha deciso di far incontrare al fronte, costringendoli a condividere le abominevoli condizioni di vita nelle trincee, il lettore ha l’opportunità di essere uno spettatore privilegiato di tutto ciò che è accaduto durante la Prima guerra mondiale.
Nel libro vengono indicati i nomi, le città di provenienza e il ruolo avuto nell’esercito di coloro che potrebbero essere dei “fratelli maggiori” dei potenziali lettori: i giovani che hanno partecipato alla guerra senza aver ancora compiuto vent’anni, o dopo averli da poco superati, hanno lasciato testimonianze di fatti terribili, talvolta incredibili, tanta è l’assurdità che il Male può raggiungere quando l’uomo decide di odiare il suo prossimo. Oltre ai personaggi storici che hanno avuto un ruolo determinante nel modificare con le loro decisioni il corso degli eventi – dal generale Cadorna al generale Diaz – nel libro è possibile fare la conoscenza di soldati che hanno pagato con la loro vita il prezzo della vittoria.
Il fuciliere Duilio Faustinelli, ad esempio, di soli ventidue anni, racconta l’orrore vissuto durante gli attacchi contro le linee nemiche: una corsa consapevole verso la morte che si accaniva, senza lasciare scampo, su giovanissimi soldati che avevano come ultimo conforto quello di pronunciare il nome della madre, della moglie, o quello di chiedere perdono a Dio. Grazie alle parole dell’artigliere toscano Adolfo Bellini, di venticinque anni, ci si trova invece a camminare a più di 3000 metri di altitudine sul ghiacciaio del Passo dello Zebrù, immersi in un freddo pungente che la natura sembra usare come arma contro i soldati, quasi fosse diventata essa stessa un’alleata dell’esercito nemico.
Dal soldato del Genio Giovanni Arru, infine, viene descritta una vicenda cui si stenta a credere, avvenuta durante la ritirata seguita alla disfatta di Caporetto: la strage avvenuta su un ponte sul fiume Isonzo, fatto saltare in aria insieme a tutto il suo carico di soldati e civili inermi che lo stavano attraversando, colpevoli solo di non aver fatto in tempo ad arrivare all’altra riva nei tempi strettissimi calcolati dalle autorità militari. Il volume ha inoltre il merito di approfondire alcuni aspetti solo apparentemente collaterali alla guerra, ma che ne hanno comunque fatto parte, determinandone il profilo.
Risulta particolarmente significativo il capitolo dedicato alle donne e al ruolo che hanno avuto nella Prima guerra mondiale, alla loro forza morale, psicologica e fisica: dalle “portatrici carniche”, pronte a trasportare cibo e munizioni sulle spalle affrontando lunghe ore di cammino in montagna per arrivare agli accampamenti dei soldati, alle donne costrette a produrre in fabbrica bombe e proiettili di ogni calibro, fino alle figure femminili che hanno avuto il coraggio di partecipare attivamente alla guerra, come Viktoria Savs, una ragazza austriaca che ottenne il permesso di arruolarsi e far parte delle truppe austriache schierate sul fronte italiano per rimanere vicina al padre, cui era legata da un profondo affetto.
Non possono infine non suscitare una sana indignazione le notizie contenute nel capitolo intitolato “Cose che un soldato non deve fare”, dedicato alle severe sentenze emesse dal Tribunale militare per i soldati accusati del “crimine di codardia” e condannati al carcere per aver osato scambiare “parole e oggetti” con i nemici austriaci, invece di ucciderli a sangue freddo. È stato invece il libero arbitrio folle e insensato degli ufficiali italiani a porre fine alla vita di soldati “colpevoli” di appartenere allo stesso battaglione di un disertore, e che soltanto per questo sono stati estratti a sorte e condannati alla fucilazione. Per poter prendere le distanze dalla guerra e dai suoi orrori, l’unica strada da percorrere è quella della conoscenza. Essere consapevoli di ciò che ci attende ogni volta che decidiamo di avventurarci in un conflitto armato è il solo strumento che abbiamo per cercare di allontanarci il più possibile dalla guerra e guardarla con disgusto. Leggere il libro di Massimo Birattari può senz’altro essere un aiuto per far aprire gli occhi, e il cuore, alle nuove generazioni.
War horse
Autore: Michael Morpurgo
Edizione: Rizzoli, 2013
Pagine: 177
Quanta forza abbiano l’amore, il ricordo, la speranza di poter cambiare il destino anche quando gli eventi sembrano dire che ogni sforzo per modificarli è inutile e folle, è ciò di cui ci parla Michael Morpurgo nel libro “War horse”. Il protagonista è Joey, un giovane baio ciliegia caratterizzato da una bellissima stella sulla fronte, quattro balzane perfettamente uguali, criniera e coda nere.
Attraverso di lui e il suo punto di vista si svolge il filo narrativo del romanzo. Il giovane Albert ne diventa il padrone per puro caso: la decisione di suo padre di acquistare un cavallo è infatti frutto di un agire sconsiderato, guidato dalla stretta frequentazione che il signor Narracott ha col l’alcol. Ai modi rudi che il padre di Albert usa con Joey si contrappongono quelli del giovane, che stringe con il cavallo un legame forte e indissolubile, che le vicende imprevedibili della vita riusciranno a ingarbugliare ma non a sciogliere definitivamente. Bisognoso di denaro, poiché un’ipoteca grava sulla fattoria, il padre di Albert decide di vendere Joey all’esercito inglese, in procinto di partire per il Fronte occidentale.
La Prima guerra mondiale tuttavia ha in serbo molte sorprese: una vera e propria rivoluzione nelle tecniche militari è quella che si abbatterà sui soldati, e soprattutto sulla cavalleria, che si rivelerà completamente inutile in una guerra di posizione, estenuante e sfiancante, in cui vince chi si difende e non chi attacca.
Al primo abbandono già vissuto da Joey, che è strappato alla madre quando viene venduto la prima volta, se ne aggiunge un secondo: il suo nuovo padrone è il tenente Nicholls, che lo aiuterà ad affrontare per la prima volta i più terribili scenari di guerra. Numerosi e molto diversi tra loro sono i padroni che Joey incontrerà sul Fronte occidentale: dal giovane soldato Warren, che grazie a Joey riacquista il coraggio di salire di nuovo su un cavallo, alla piccola Emilie, a cui sono stati strappati dalla guerra e dalla malattia tutti i membri della famiglia, tranne il nonno, e che ritrova il senso della vita grazie all’amore puro e semplice che nutre per il suo cavallo.
Per quanto molto diversi tra loro, gli esseri umani che la vita decide di far conoscere a Joey hanno tuttavia un aspetto in comune: il desiderio di parlare e di raccontare la loro storia, di esprimere i loro pensieri e di farlo con Joey con sincerità e dolcezza. La voce suadente, buona e gentile di Albert e degli altri padroni è l’aspetto degli esseri umani che ha maggiore presa su Joey. Sarà proprio la voce di Albert a far riconoscere a Joey il suo padrone. Deciso a ritrovare il suo cavallo e riportarlo in Inghilterra a qualsiasi costo, Albert si arruola nell’esercito inglese appena compiuti 17 anni.
La costanza e la speranza del giovane vengono premiate: proprio sul Fronte occidentale Albert ritrova il suo vecchio amico, a cui però il filo spinato su un campo di battaglia ha gravemente ferito una zampa. Il tetano sembra voler separare di nuovo i due, e stavolta per sempre. Ma la vita ha più potere della morte quando l’uomo vuole il bene di ciò che lo circonda. La vita ha deciso che Joey fosse uno dei 60.000 cavalli di guerra costretti a partecipare alla Prima guerra mondiale e a tornare sani e salvi nel Regno Unito. Di lui rimane ancora oggi un ritratto, frutto dell’affettuoso attaccamento avuto nei suoi confronti dal Tenente Nicholls. Dal libro di Michael Morpurgo è stato tratto l’omonimo film di Steven Spielberg, la cui visione in classe può avvenire contestualmente alla lettura del libro, se affrontata con gli alunni.
Oltre a risultare particolarmente utile per far conoscere agli alunni gli aspetti più atroci della Prima guerra mondiale, il romanzo si presta ad essere utilizzato per affrontare in classe un percorso che abbia l’obiettivo di sviluppare l’empatia, la capacità di dare un nome ai sentimenti e di affrontare situazioni di distacco e abbandono.
Nella tua pelle
Autrice: Chiara Carminati
Edizioni: Bompiani, 2024
Pagine: 192
Quando i nostri occhi si imbattono in realtà scabrose e imbarazzanti, tanto difficili da accettare quanto impossibili da negare, è nelle parole che tentiamo di trovare un’arma di difesa, per coprire, come con un velo, ciò che non vorremmo vedere. È quello che è accaduto a uno degli aspetti più dolorosi e meno conosciuti della Prima guerra mondiale. “Figli della guerra” è l’espressione con cui sono stati chiamati i bambini nati dagli abusi di cui le donne furono vittime durante la Grande Guerra.
Un’etichetta che copre una verità scomoda, una vera contraddizione in termini: come può una guerra, che è di per sé foriera di morte, avere dei figli, che sono il simbolo della vita? Rifiutati dai “padri putativi” tornati dal fronte e abbandonati con dolore dalle loro madri naturali, i “figli della guerra” hanno tuttavia trovato in Italia degli occhi che li hanno guardati senza disprezzo, delle braccia che li hanno accolti e dei cuori che li hanno amati. Per raccontare la loro storia, Chiara Carminati si è servita dei numerosi documenti contenuti in un vecchio armadio dell’Istituto San Filippo Neri di Portogruaro, fondato nel 1918 da don Celso Costantini appositamente per i “figli della guerra”, unico caso in tutta Europa di un istituto dedicato proprio ai bambini frutto di un atto violento e brutale. Giovanna, Vittorio e Caterina sono i tre giovani protagonisti del romanzo, la cui storia è stata ricostruita mettendo insieme, “come le tessere di un mosaico”, le informazioni raccolte dall’autrice durante le sue ricerche nell’Archivio della Fondazione San Giuseppe Calasanzio di Portogruaro, a cui oggi appartengono i documenti dell’Istituto San Filippo Neri.
Uniti tra loro da un profondo legame che supera quello del sangue, i tre bambini sono tuttavia costretti a vedere le loro strade dividersi. Giovanna è la prima ad andarsene dall’Istituto: affidata a una giovane e ricca coppia di Padova, viene addirittura costretta ad accettare un nuovo nome e a diventare “Lucrezia”, per colpa dei capricci di una madre affidataria mai cresciuta, che non riuscirà ad essere per lei un vero punto di riferimento. Niente della nuova vita da signorina di buona famiglia che le viene imposta piace a Giovanna, eccetto una cosa: la possibilità di esprimere sé stessa sui tasti bianchi e neri di un pianoforte e la scoperta dell’energia del jazz, la “musica del futuro”.
Vittorio viene ricoverato presso l’Ospedale al Mare di Venezia, ma proprio lì trova un padre nel Dottor Caccia, che deciderà di regalare al ragazzo tutto l’amore di cui è capace, rimasto chiuso in un cassetto del suo cuore per ben quattordici anni. Caterina è invece la prima a ritrovare la sua famiglia d’origine. Anche Giovanna e Vittorio ritroveranno le loro “vere” famiglie, a riprova del fatto che i legami di sangue hanno delle risonanze che la distanza fisica e il tempo non possono distruggere. Tuttavia, il regalo più grande che la vita fa a Giovanna è quello di poter trovare una nuova famiglia, fatta però da ingredienti non convenzionali, esattamente come un piatto cucinato “in tempo di guerra”, che può riuscire squisito anche senza che venga seguita pedissequamente la “ricetta” imposta dalla tradizione. Giovanna quindi sarà cercata, e finalmente ritrovata, dalla sua madre naturale, ma dopo aver ricevuto la certezza del suo amore deciderà di rimanere ad abitare a Venezia, presso la casa della Contessa Bianca Maria Sapienza, una nobile decaduta che diventerà sua “nonna”.
Ricostruire la storia della propria vita, guardare al proprio passato senza rimpianti e senza vergogna, senza dover chiudere gli occhi mentre scorrono sullo schermo della mente le immagini più imbarazzanti, comprendere che tutto ciò che accade, per quanto possa essere doloroso, non voluto e inaspettato, è ciò che permette ad ognuno di costruire la propria identità, è l’invito che i nostri alunni possono cogliere dalla lettura del libro. Oltre che per arricchire la conoscenza della storia della Prima guerra mondiale con un nuovo capitolo, il romanzo di Chiara Carminati può essere usato come spunto anche per la disciplina di Italiano: per far sviluppare le competenze relative alla produzione scritta, è ad esempio possibile proporre agli alunni di scegliere un personaggio secondario del romanzo e raccontarne la storia secondo la tecnica narrativa dello spin off.