Emergenza smog e temperature sopra la media stagionale. Sono due argomenti che hanno dominato i media negli ultimi giorni del 2015, quando i dati sul PM10 diffusi dalle agenzie per la protezione ambientale davano una misura precisa di quelle impalpabili cappe nere che hanno avvolto per settimane le città italiane. Complice il bel tempo, in molti luoghi la soglia limite di 50 microgrammi per metro cubo è stata di gran lunga superata per molti giorni consecutivi. Le conseguenze più temute sono quelle per la salute – in particolare delle vie respiratorie – di chi vive nelle aree “da bollino rosso”. Ma c’è almeno un altro buon motivo per tenere a bada le polveri sottili, e ha a che fare sia con l’innalzamento delle temperature locali, sia con il riscaldamento globale.
Prima di tutto, capiamo cosa si intenda, esattamente, con la sigla PM10. “PM” sta per materia particolata: particelle solide e liquide che si trovano in sospensione nell’aria. Il numero 10 indica invece il diametro massimo di queste particelle, misurato in micrometri (un micrometro è un millesimo di millimetro). La composizione del PM10 è molto varia: vi si trovano, per esempio, metalli pesanti, solfati, nitrati, ammonio, carbonio, idrocarburi, diossine. Alcune di queste polveri derivano da processi naturali, come l’erosione del suolo, la dispersione dei pollini, l’eruzione dei vulcani e gli incendi boschivi; in altri casi, invece, sono legate all’inquinamento antropico. Tra le principali fonti vi sono i processi di combustione degli impianti termici e dei motori, e questo è il motivo per cui spesso le amministrazioni comunali stabiliscono il blocco del traffico e fissano limiti alla temperatura del riscaldamento delle case.
Tra le tante particelle che formano il PM10, ce n’è una che sta richiamando l’attenzione di scienziati, medici e politici. Si chiama black carbon per via del suo colore scuro e per il fatto di essere formata principalmente da carbonio: deriva dalla combustione incompleta di combustibili fossili e di biomasse (legname, scarti agricoli, letame), dai motori diesel e dai vecchi fornelli domestici, molto diffusi nei Paesi in via di sviluppo. Si tratta di un “composto clima-alterante a vita breve” (Short-Lived Climate Forcers): rimane sospeso nell’atmosfera solo per alcuni giorni (e non per decenni, come il biossido di carbonio), per poi depositarsi sul suolo. Alti livelli di black carbon possono contribuire a innalzare anche di due gradi la temperatura locale, ma non solo. Sebbene sia prodotto nelle aree più densamente popolate, le correnti atmosferiche possono trasportarlo molto lontano, fin sui ghiacciai. E dal momento che il colore scuro assorbe l’energia dei raggi solari molto più del bianco (che li riflette), l’effetto del black carbon è quello di scaldare la superficie, velocizzando la fusione del ghiaccio.
Per sensibilizzare i cittadini sugli effetti del black carbon, il Muse, museo delle scienze di Trento, ha lanciato un progetto di cittadinanza scientifica che sta coinvolgendo molte scuole, con percorsi che si adattano a tutte le classi secondarie, sia di primo sia di secondo grado.
Il progetto è nato nel 2012 da un’idea di David Tombolato, fisico, ricercatore presso l’Università di Trento fino al 2010, poi curatore scientifico al Muse: «Il black carbon è un inquinante di cui si sente parlare ancora poco – racconta Tombolato – e per questo al Muse abbiamo pensato a un’attività che facesse conoscere questa sostanza e i suoi effetti a livello sia locale sia globale. Nell’ottica di coinvolgere il più possibile gli studenti e di contribuire a formare una cittadinanza scientificamente consapevole e attiva, abbiamo inoltre messo in piedi un esperimento di citizen science: invitiamo i ragazzi a misurare loro stessi il black carbon in classe, in modo da costruire, dal basso, una prima mappa di questo particolato. Oltre al Muse, in questo progetto sono coinvolti l’Azienda provinciale per la protezione dell’ambiente, la facoltà di ingegneria dell’Università di Trento, e l’Università della California di Los Angeles, che fornisce i campionatori dell’aria ed elabora i dati raccolti dai ragazzi». L’attività proposta dal Muse si divide in tre momenti: i primi due si svolgono all’interno del museo, il terzo in classe.
Per prima cosa, ai ragazzi vengono spiegate le dinamiche delle correnti aeree attraverso lo spettacolare exhibit Science on a Sphere (SOS) della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa di ricerca nel campo delle scienze atmosferiche. L’exhibit è una sala allestita con computer e videoproiettori che visualizzano su una grande sfera (di quasi due metri di diametro) le immagini delle tempeste atmosferiche, delle temperature oceaniche, dei cambiamenti climatici in atto, per citare solo alcuni esempi. In pratica, la sfera si trasforma in un modello animato e interattivo del globo terrestre, basato su enormi quantità di dati reali.
Tra i programmi messi a disposizione dalla NOAA ve n’è uno specifico sul black carbon, che permette di visualizzare i movimenti di questo particolato, dalle zone più densamente popolate a quelle meno abitate. Per chi volesse provare l’attività in classe, la NOAA mette a disposizione SOS Explorer: un programma per Pc e Mac che ricrea sullo schermo il modello interattivo del globo. Per il momento è disponibile gratuitamente una prima versione introduttiva.
La seconda parte dell’attività prevede un esperimento empirico, sempre al museo, per dimostrare l’influenza del black carbon sulla velocità di scioglimento dei ghiacciai. Due piccoli blocchi di ghiaccio (di circa dieci centimetri di diametro) vengono posti sotto due lampade identiche. Entrambi sono appoggiati su un imbuto che convoglia l’acqua in un cilindro graduato. Uno dei blocchi viene poi ricoperto di un sottile strato di black carbon, in modo da simulare la reale deposizione del particolato sui ghiacciai. Dall’inizio dell’esperimento e per la durata di un’ora, due studenti, a turno, controllano la fusione dei blocchi, misurando il livello dell’acqua nei cilindri graduati, ogni cinque minuti. I dati vengono annotati su un foglio, e alla fine dell’esperimento verranno utilizzati per disegnare i grafici delle velocità di fusione dei due ghiacciai in miniatura, che dimostreranno come il black carbon influenzi in maniera diretta l’ecosistema dei ghiacciai. Durante l’esperienza, viene spiegato nel dettaglio cosa sia il black carbon e i suoi effetti sulla salute, cercando di coinvolgere i ragazzi in riflessioni e discussioni. Sul sito del Muse è presente un breve video in lingua inglese, prodotto dalla NOAA, che può essere usato anche in classe.
Come abbiamo anticipato, l’attività non si esaurisce con la visita al museo. Alle classi che lo desiderano viene consegnato un campionatore dell’aria. Si tratta di una piccola pompa che aspira l’aria, facendola passare attraverso un filtro in fibre di quarzo, che si anneriscono a contatto con i composti del carbonio.
Lo strumento può essere posizionato sia all’esterno (protetto dalla pioggia e dai raggi diretti del sole), sia all’interno di un edificio, e deve essere tenuto in funzione per 24 ore. Il filtro viene poi prelevato e fotografato seguendo istruzioni molto precise, per non alterare in alcun modo i colori.
Da questa fotografia, i ricercatori dell’Università di Los Angeles saranno in grado di stimare i valori della concentrazione di black carbon presente sulla superficie del filtro e nel volume di aria aspirata, grazie a un algoritmo creato ad hoc.
Una volta spedita la fotografia al Muse e ottenuto indietro il dato, questo potrà essere inserito nella mappa italiana del black carbon. Agli studenti viene chiesto di riportare quante più informazioni possibile per contestualizzare e interpretare al meglio il valore registrato, come la data del campionamento, la posizione della scuola, l’altezza a cui è stato posto il campionatore, le condizioni meteorologiche del giorno della misurazione, e dei giorni precedenti, dal momento che tutte queste variabili influiscono sulla quantità di black carbon che si trova sospeso in atmosfera.
Ma a chi e a che cosa servono realmente questi dati? Va detto, in effetti, che l’errore delle misurazioni può essere grande. Inoltre i dati non sono omogenei. Ma allora perché fare la fatica di raccoglierli e condividerli? «È un argomento di cui abbiamo discusso molto al Dipartimento di ingegneria ambientale di Trento», risponde Tombolato: «E siamo arrivati alla conclusione che, sebbene si tratti di dati inquinati, non per questo non potranno essere utili. Si tratta per ora di informazioni qualitative e non quantitative, ma ci stanno comunque dicendo qualcosa su un inquinante che non verrebbe monitorato in altro modo. È come se stessimo tutti insieme conducendo uno studio pilota: dimostriamo che gli studenti e i cittadini, informati e dotati degli strumenti giusti, possono contribuire allo sviluppo urbano e diventare parte attiva di una smart city. Il concetto che vogliamo far passare non è che chiunque, da solo, può fare misurazioni scientifiche corrette, di cui fidarsi ciecamente, ma che tutti possiamo essere d’aiuto a chi fa ricerca. Soprattutto nel momento in cui queste misurazioni vengono condivise e messe a disposizione di chi è in grado di interpretarle».