I satelliti hanno rivoluzionato il modo in cui guardiamo il nostro pianeta, permettendoci di fare nuove scoperte in molti ambiti, dalla geologia all’agricoltura, dalla medicina all’ecologia.
Che cos’hanno in comune un biologo che studia la deforestazione, un medico delle Nazioni Unite che combatte la diffusione delle epidemie, un climatologo che analizza il riscaldamento globale, un oceanografo che indaga l’acidificazione dei mari, un architetto che si occupa di pianificazione urbana e un fisico dell’atmosfera che misura le variazioni dello strato di ozono? Tutti, nelle loro ricerche, usano anche i dati provenienti dai satelliti artificiali. Negli ultimi sessant’anni, a partire cioè dal 1957, quando l’Unione Sovietica lanciò lo Sputnik 1 i satelliti artificiali hanno rivoluzionato lo studio del nostro pianeta, al punto che oggi sarebbe impensabile farne a meno. Ma come funzionano esattamente, che tipo di dati forniscono, dove si trovano, quanti ce ne sono e di quanti tipi diversi?
La maggior parte dei satelliti artificiali si trova in quella che viene chiamata “orbita bassa” (in inglese Low Earth Orbit o LEO), a poche centinaia di chilometri dalla superficie della Terra. Immaginate che la Terra sia un’arancia: se questi satelliti si trovassero appoggiati all’esterno, la superficie terrestre sarebbe appena sotto la buccia. L’esempio più celebre di orbita bassa è quello della Stazione Spaziale Internazionale, che si trova a circa 400 chilometri di quota. Una quota così bassa obbliga questi satelliti a muoversi molto velocemente – 25-30 000 chilometri l’ora – perché altrimenti la forza centrifuga non riuscirebbe a bilanciare la gravità e i satelliti finirebbero per precipitare sulla Terra. A mano a mano che la quota diventa più elevata la gravità si fa sentire di meno e quindi la velocità angolare può diminuire, fino ad arrivare ai satelliti che, a 36 000 chilometri di quota, ruotano intorno alla Terra in corrispondenza dell’equatore esattamente alla stessa velocità alla quale il pianeta gira su se stesso e quindi, dalla prospettiva del moto relativo alla Terra, rimangono “fermi” nello stesso punto. Per questo motivo vengono chiamati geostazionari, cioè “fermi rispetto alla Terra”. Ma quanti tipi diversi di satelliti ci sono?
I più comuni sono senza dubbio quelli per telecomunicazioni, che trasmettono ormai qualsiasi tipo di dati: i segnali radiotelevisivi, ma anche le telefonate e Internet. I satelliti per telecomunicazioni ricevono onde radio da una stazione terrestre, li amplificano, se necessario li elaborano e li rimandano ad altre stazioni terrestri (le classiche parabole che si usano per ricevere i canali della televisione satellitare).
Sicuramente conoscete la sigla GPS (Global Position System): è quella dei sistemi di navigazione terrestre come Google Maps e molti altri. I satelliti per navigazione usano il vecchio trucco della triangolazione, fin dai tempi antichi ben noto ai navigatori per determinare la loro posizione: se non so dove sono io, ma vedo due punti distanti, so dove si trovano sulla mappa e conosco la mia distanza da loro, posso determinare la mia posizione. Il sistema GPS è americano, ma sta diventando operativo anche il sistema europeo Galileo.
Il campo che permette il maggior numero di applicazioni diverse della tecnologia satellitare è tuttavia quello dell’osservazione terrestre. Questi satelliti hanno antenne che permettono di osservare la Terra non solo nel campo della luce visibile, ma anche in altre frequenze come quelle delle onde radio e delle microonde (perciò, a differenza di normali macchine fotografiche, possono operare anche di notte o con cielo nuvoloso), oltre a diversi sensori che permettono di ricostruire la composizione dell’atmosfera e le sue variazioni.
Un tipo particolare di satelliti per osservazione terrestre è costituito dai satelliti meteorologici, che studiano le condizioni atmosferiche, permettendo di realizzare le previsioni del tempo. Possono fare due tipi di orbite: equatoriale geostazionaria e polare.
I satelliti geostazionari hanno il vantaggio di essere così lontani dalla Terra da poter osservare quasi metà della sua superficie nello stesso momento. Naturalmente, proprio perché sono lontani, la risoluzione dell’immagine non è molto buona, ma è sufficiente per osservare la circolazione delle nuvole sui continenti: la maggior parte delle immagini che vediamo nelle previsioni del tempo proviene da loro. I satelliti in orbita polare (cioè perpendicolare, o quasi, al piano dell’equatore) si trovano invece in orbita bassa (850 km) e hanno il vantaggio che, mentre orbitano intorno al pianeta, la Terra ruota su se stessa permettendo loro di osservarne un po’ alla volta tutta la superficie: nell’arco di 24 ore riescono dunque a trovarsi due volte al di sopra di qualsiasi punto del pianeta. Questo vuol dire che bastano due satelliti dello stesso tipo per osservare un punto qualunque della Terra ogni 6 ore e raccogliere rapidamente dati sulle emergenze come gli uragani.
Le scoperte ottenute dai satelliti per osservazione terrestre hanno rivoluzionato le scienze della Terra, come evidenziato da un rapporto del National Research Council (Earth Observation from Space).
Al momento del lancio dello Sputnik 1, cinquant’anni fa, la geolocalizzazione della superficie terrestre avveniva con errori di centinaia di metri nelle aree più remote. Oggi le coordinate tridimensionali della superficie possono essere determinate con precisioni inferiori al centimetro. Le mappe globali dell’atmosfera ottenute dai satelliti hanno dimostrato che l’inquinamento atmosferico si muove tra i continenti e hanno permesso di vederlo come un fenomeno globale e non locale. I radiometri che misurano il bilancio dell’energia entrante e uscente dalla Terra hanno consentito di migliorare la nostra comprensione del clima e di osservare le variazioni di bilancio energetico dovute a singoli eventi come le eruzioni vulcaniche. E ancora: i satelliti per l’osservazione degli oceani hanno approfondito le nostre conoscenze della circolazione oceanica, hanno rivelato il ruolo degli oceani nella variabilità climatica e hanno fornito ulteriori prove del riscaldamento globale, permettendo di quantificare e prevedere il suo impatto sull’aumento del livello del mare.
Le previsioni del tempo sono enormemente più precise e si stima che permettano al settore energetico di pianificare con maggiore precisione la domanda di energia per riscaldamento e condizionamento, risparmiando così centinaia di milioni di euro, oltre di salvare vite umane: tutti i cicloni tropicali, per esempio, vengono osservati tempestivamente ed è possibile avvisare in anticipo le zone costiere che ne saranno affette. Inoltre i satelliti permettono di prevedere la produttività dei terreni agricoli e di ottimizzare l’irrigazione in funzione del clima e quindi di prevedere e mitigare le carestie. Anche la tettonica a placche, la sismologia e la vulcanologia hanno ricavato grande beneficio dai dati provenienti dai satelliti perché i dati raccolti in orbita offrono informazioni sulla velocità delle placche, sul rischio sismico e sulle deformazioni della superficie terrestre causate dai vulcani.
La continua osservazione satellitare dell’ozono nella stratosfera e della sua riduzione già negli anni Ottanta fu determinante per l’approvazione del Protocollo di Montréal che limita l’emissione dei gas che distruggono l’ozono (come i cloroflurocarburi, usati soprattutto in passato, per gli impianti di aria condizionata). Le osservazioni più recenti hanno dimostrato che, grazie alla firma del trattato, i danni allo strato di ozono hanno cominciato a ridursi e gli scienziati si aspettano che si possano azzerare nel corso di questo secolo.
Altri esempi di progetti attualmente in corso grazie ai satelliti ne illustrano l’importanza nei campi più disparati.
Il satellite NigeriaSat-2 permette alla Nigeria di creare una mappa completa dell’intera nazione ogni sei mesi e in questo modo di programmare lo sviluppo urbano, la costruzione di strade e anche l’uso del fertilizzante nelle aree agricole.
Il progetto DeforestACTION usa immagini raccolte via satellite e confrontate di settimana in settimana per individuare il disboscamento illegale in nazioni come il Brasile con foreste molto vaste e difficili da sorvegliare in ogni loro punto. L’uso di dati satellitari aiuta anche nella previsione dell’andamento di epidemie. In Africa occidentale, per esempio, la diffusione della meningite è un grave problema denunciato come un’emergenza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Gli scienziati hanno scoperto che ogni anno le tempeste di sabbia stagionali che attraversano il Sahel sono seguite da ondate di meningite, ma le cause di questa correlazione non sono ancora chiare. Associare i dati relativi alla diffusione della malattia con quelli sulle tempeste di sabbia permette però di migliorare le previsioni delle prossime epidemie e quindi di essere più efficaci nel contrastarle.
La visione globale del pianeta ottenuta dai satelliti ha permesso di capire che le terre emerse, gli oceani e l’atmosfera sono collegati tra loro e ha cambiato il modo in cui studiamo la Terra, che ora viene vista come un sistema integrato che deve essere analizzato da gruppi interdisciplinari. Per il futuro rimangono molte questioni aperte: migliorare le previsioni del tempo a dieci giorni, fare previsioni più accurate degli uragani, aumentare la comprensione dei terremoti e delle eruzioni vulcaniche per riuscire a scoprire gli eventi precursori, mitigare le conseguenze del riscaldamento globale e proteggere le risorse naturali e la biodiversità. I satelliti ci aiuteranno a comprendere sempre meglio il pianeta in cui viviamo, come sostiene la vita e come viene influenzato dalle attività umane.
Approfondimento:
Il satellite più grande è la Stazione Spaziale Internazionale, che è lunga 100 metri per 70 di larghezza (come un campo da calcio) e pesa quattrocento tonnellate (come tre o quattro grandi navi da crociera messe insieme). I più piccoli sono i nanosatelliti, sotto i dieci chilogrammi di peso. I nanosatelliti più noti sono quelli della famiglia CubeSat: dei cubi di dieci centimetri di lato (grandi più o meno come una confezione di latte). Si possono realizzare grazie alla miniaturizzazione spinta dell’elettronica, sono progettati il più delle volte dalle università che li usano per scopi scientifici o didattici, e vengono lanciati a gruppi di 50 contemporaneamente con lo stesso razzo per ridurre i costi.
Dal 1957 a oggi sono stati lanciati migliaia di satelliti e molti sono ancora in orbita: secondo l’ultimo rapporto disponibile dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Spaziali Esterni (ebbene sì, esiste davvero, al 31 agosto 2016 erano in orbita 4256 satelliti artificiali. In realtà solo uno su tre funziona ancora: tutti gli altri sono “spazzatura spaziale” inerte e continuano a orbitare intorno alla Terra fino a quando gli urti con i micrometeoriti li rallentano a sufficienza da farli precipitare, con conseguente polverizzazione nell’atmosfera. Per questo, diverse aziende pensano di specializzarsi nel “ripulire lo spazio” con reti gigantesche e altri sistemi fantascientifici. A questo proposito, ricordiamo il primo “incidente spaziale”, nel 2009: uno scontro tra un satellite commerciale della costellazione Iridium e il satellite russo per telecomunicazioni Cosmos 2251, ormai “defunto” da oltre dieci anni ma ancora in orbita.
I satelliti scientifici sono commissionati dalle agenzie spaziali nazionali e internazionali: le più note sono la Nasa negli Stati Uniti, l’Esa in Europa, Roscosmos in Russia, Jaxa in Giappone e Cnsa in Cina. Non sono però le agenzie spaziali a costruire i satelliti, ma le aziende da loro incaricate: in Italia per esempio la joint-venture italo-francese Thales Alenia Space, l’OHB Italia (parte del gruppo Airbus) e altre aziende.
Al progetto dei satelliti lavorano soprattutto ingegneri di ambiti differenti, ma anche fisici, informatici e altri specialisti. I reparti di costruzione dei satelliti sono molto diversi da quelli di altre industrie: bisogna evitare che i sensori siano contaminati da particelle che li danneggerebbero, perciò gli operatori devono indossare normalmente camice, cuffia e sovrascarpe come in sala operatoria, e scafandri veri e propri per i componenti più delicati.