Pi greco (π) è un numero molto presente nei corsi di matematica della scuola media. Lo si usa per calcolare lunghezze di circonferenze, aree di cerchi, aree e volumi di cilindri, coni e sfere. Ma come introdurre un numero irrazionale trascendente a ragazzi così giovani senza generare concezioni errate? Ci ho provato immaginando un percorso didattico che si è rivelato coinvolgente e divertente per i ragazzi di terza media, con i quali è stato realizzato alcuni anni fa a Romàns d’Isonzo (Gorizia).
In seconda media avevo presentato π come il rapporto costante C/d fra la lunghezza di una qualunque circonferenza e il suo diametro. Usando questa definizione, la lunghezza di una circonferenza di raggio 3 centimetri è 6π centimetri e l’area del cerchio da questa racchiuso è 9π centimetri quadrati. Un giorno mi resi conto che l’aver lasciato i risultati scritti in questo modo aveva convinto implicitamente una parte della classe che l’area del cerchio di raggio 3 centimetri fosse inferiore a 10 centimetri quadrati. Questo nonostante fosse stato più volte ribadito che pi greco ha un valore pari a 3,14159.... Alcuni allievi tendevano a “cancellare mentalmente” π e a perdere così il senso della misura. I risultati degli esercizi erano per lo più formalmente corretti, ma le valutazioni numeriche su di essi del tutto errate. Stavo contribuendo a creare studenti “pseudostrutturati” nel senso di Anna Sfard 1, ovvero persone che si fermano agli aspetti sintattici della matematica, non essendo consapevoli del significato dei simboli che usano.
Avrei potuto chiedere il risultato approssimato. Quando ero ragazzina, a scuola si faceva così. Non scrivevamo che la lunghezza di una circonferenza era 6π o l’area di un cerchio era 9π. 6π diventava 18,84 e 9π era 28,26. Il corretto senso delle proporzioni era salvo. Questo approccio nascondeva però un’altra insidia: valendo sempre e solo 3,14, π diventava implicitamente un numero razionale. Come ovviare a questa “frode didattica” senza perdere il senso della misura? Pensai di accostare ai risultati esatti approssimazioni “a valle” usando il tasto π di una calcolatrice scientifica. Bisognava tenere la migliore approssimazione a meno di un millimetro per le lunghezze, a meno di un millimetro quadrato per le aree e a meno di un millimetro cubo per i volumi. Si salvavano così capra e cavoli: π veniva presentato come irrazionale e le circonferenze erano lunghe più del triplo del diametro.
L’operazione non fu indolore. Sorsero spontaneamente in classe dubbi filosofici del tipo: come faccio a dire di conoscere veramente un numero con infinite cifre decimali che non si ripetono periodicamente? I miei allievi mostravano grande difficoltà nel concepire l’infinito attuale dell’insieme delle cifre decimali di π. Avevano digerito con una certa disinvoltura l’infinito potenziale del contare, erano riusciti a bypassare discretamente le difficoltà con i numeri periodici grazie alla loro scrittura frazionaria, e con gli irrazionali algebrici grazie alla notazione radicale, ma questo “numeraz” (così lo definì un giorno Elisa) non riuscivano proprio a mandarlo giù! Stavo pretendendo troppo? Come aiutarli? Decisi di prendere il toro per le corna e affrontare con loro un ragionamento sulla natura dell’infinito matematico.
Qualche anno prima avevo scritto un testo teatrale ispirato alla famosa metafora introdotta da Hilbert riguardante un hotel con infinite stanze che può essere completo pur avendo stanze disponibili. Lessi la pièce alla classe, e gli studenti si mostrarono molto contenti all’idea di metterla in scena come recita di fine anno anche se sembrava loro abbastanza inafferrabile. Grazie alla collaborazione degli insegnanti di Italiano (Laura Delpin),Educazione Artistica (Wilma Canton), Educazione Fisica (Laura Valli), Educazione Musicale (Laura De Simone) e sostegno (Bruno Raicovi) allestimmo lo spettacolo.
Aleph è la prima lettera degli alfabeti fenicio ed ebraico, la “progenitrice” della nostra A.
Il matematico Georg Cantor (1845-1918) la scelse per indicare i cardinali transfiniti che scoprì mentre stava introducendo il concetto di cardinalità all’interno di una nuova teoria: la teoria ingenua degli insiemi. In particolare indicò con aleph zero il più piccolo cardinale transfinito, quello associato ai numeri naturali.
La cardinalità venne inizialmente introdotta per confrontare gli insiemi finiti. L’insieme dei multipli di 4 minori di 10 è diverso dall’insieme dei numeri 1 e 2, ma questi sono equipotenti. Posso infatti associare 1 a 4 e 2 a 8 ed ho costruito una corrispondenza biunivoca che conta gli elementi. I due insiemi hanno la stessa cardinalità: 2.
Fintanto che ci si limita a insiemi finiti, un insieme ha sempre cardinalità strettamente maggiore di un qualunque suo sottoinsieme proprio. Quando si passa agli insiemi infiniti, invece, questa proprietà talmente intuitiva da costituire uno dei postulati generali della geometrica euclidea (il tutto è maggiore di una parte) non vale più. E così succede che i numeri pari e i numeri quadrati, pur essendo solo una parte dei numeri naturali, abbiano la stessa cardinalità di questi: aleph zero.
Si può dire di più: la proprietà di poter avere la stessa cardinalità di un sottoinsieme proprio è talmente connaturata agli insiemi infiniti da essere la loro definizione.
Insegnare matematica è difficile, lo sappiamo. I risultati nell’apprendimento di questa materia a livello mondiale sono lì a ricordarcelo. Per cercare di facilitarne l’apprendimento è importante prendere coscienza degli aspetti neurologici, psicologici, semiotici, linguistici, cognitivi e comunicativi intrinsecamente legati a esso.
Segnalo due libri illuminanti a questo proposito, che sono stati tradotti in italiano: Da dove viene la matematica di George Lakoff e Rafael E. Nunez (Bollati Boringhieri) e Psicologia del pensiero matematico di Anna Sfard (Erickson). Nel primo si cerca di rispondere alla perplessità galileiana: come può un essere con un cervello e una mente finiti comprendere l’infinito.
Si tratta di un’analisi cognitiva delle idee matematiche e del loro legame con la realtà da un lato e col nostro cervello dall’altro in cui viene assegnato alla metafora il ruolo fondamentale di tramite concettualizzante.
Nel secondo invece, la figlia di Zygmunt Bauman critica la dicotomia fra il pensiero e la comunicazione. Ritiene che molti problemi nell’apprendimento della matematica traggano origine dall’ambiguità insita nel linguaggio e nei discorsi sul pensiero. Introduce la “comognizione”, neologismo figlio della fusione fra “comunicazione” e “cognizione”. La comognizione è il pensiero visto come una forma individualizzata di comunicazione interpersonale ed è il modo in cui le idee matematiche si formano e si sviluppano dentro di noi.