Quando nel 1891 Pellegrino Artusi (1820-1911) pubblica, a sue spese, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, la materia gastronomica si fissa in un abbecedario di economia domestica che si diffonde rapidamente presso una borghesia urbana ormai pronta ad accedere a stili e modelli di vita in via di diffusione in tutta Europa. Si può dire avviata, infatti, in questo scorcio di fine Ottocento, una fase di potenti trasformazioni sociali che agiscono nelle pratiche legate al tempo e alla domesticità. Entrano a pieno titolo in questo processo anche la diffusione, dapprima in Francia e poi anche in buona parte dell’Europa, di testi gastronomici e la crescita d’interesse per quelle particolari opere a stampa che sono i ricettari: volumi attraverso cui si socializzano abitudini quotidiane sempre più facilmente condivise, pronte a penetrare negli spazi di relazione che sono propri degli stati-nazione.
Oltre il quadro complessivo è interessante osservare in che modo il processo si declina nella realtà del nuovo nato stato italiano. Pellegrino Artusi non è uno chef né si può definire un gastronomo di professione, è un anziano e facoltoso signore – ha 71 anni quando compare per la prima volta il ricettario che lo renderà famoso – cultore di poesia foscoliana. Romagnolo di origini, da sempre scapolo, vive da molti anni a Firenze, dove si è a lungo occupato di commercio. Mazziniano e profondamente anticlericale, è piuttosto ben inserito nel contesto intellettuale del positivismo italiano. Una descrizione che mai farebbe pensare come il suo destino fosse di passare alla storia come l’autore del più importante ricettario italiano.
Per comprendere meglio in che senso l’opera di Artusi possa definirsi “nazionale” – oltre che del tutto originale – può essere utile osservare cosa stava avvenendo Oltralpe. Il modello della cucina francese rappresentava, ormai da decenni, lo standard sul quale si misurava il buon gusto in tutta Europa. In aggiunta, proprio in quel periodo, stavano diffondendosi la filosofia e la pratica gastronomica di uno dei più grandi cuochi della storia della cucina: Auguste Escoffier (1846-1935), inventore della “brigata di cucina” (ancora oggi modello di organizzazione delle cucine professionali) e collaboratore di César Ritz (1850-1918), proprietario dell’omonima catena di alberghi di lusso. Di fronte a uno strapotere fuori discussione, Artusi scrive il suo ricettario osteggiando senza mezzi termini il modello dominante: storce il naso di fronte a certe raffinatezze gourmand che ritiene inadatte allo stile di vita di quella nuova maggioranza di media e piccola borghesia italiana, sempre meno disposta a desiderare – senza peraltro mai raggiungerlo – il privilegio di un’ostentazione da alta borghesia di tendenza esterofila e cultura cosmopolita. In questo senso, la proposta di Artusi funziona perché testimonia una realtà – e una cucina – provinciale che si riconosce nella contiguità fra città e campagna e che si sente profondamente radicata alla terra. Ed è quello stesso radicamento al territorio che diviene uno dei caratteri per l’elaborazione e la valorizzazione di tipicità gastronomiche di marca italiana e di dimensione domestica. È senza dubbio fra queste pagine che a cucina italiana prende alcuni dei caratteri di quello che oggi, in tempi di globalizzazione, è diventato Italian food.
Una delle chiavi per comprendere il successo del ricettario sta nella particolare accortezza dell’autore di ragionare attorno a una versione poco pretenziosa della cucina che piace alla borghesia cui si rivolge, moderata politicamente e conformista nei comportamenti. Se di lusso si può parlare è senza dubbio adattabile a una società nel suo complesso ancora piuttosto povera e, appunto, provinciale. Eppure non è solo questo. Lo spunto alla pubblicazione può certamente dirsi la volontà di contribuire a un discorso pedagogico, di stampo positivista, per una proposta di razionalizzazione delle abitudini alimentari in un’Italia ancora intenta a riconoscere se stessa e a superare la cifra di un policentrismo secolare. Opera meritoria, almeno così sembrerebbe, eppure l’autore cerca a lungo, e senza risultato, un editore per quel suo progetto che alla fine pubblica a proprie spese. Poi il boom: nel periodo definito “ventennio artusiano” (1891-1911) saranno quindici le edizioni pubblicate, tutte riviste e arricchite, mentre gli editori proveranno a contendersi un titolo divenuto appetibile entro un genere rivelatosi improvvisamente promettente. In questo senso la vicenda de La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è anche la storia di un grande successo editoriale che, proprio in forza di questo, contribuisce a standardizzare modelli diffusi per azioni quotidiane come la spesa, l’economia domestica, l’ordine delle vivande nel pasto, la maniera di consumarle o di presentarle agli ospiti.
Resta da comprendere chi sono i lettori di Artusi. Senza dubbio borghesi, e tuttavia la sola indicazione della classe sociale di appartenenza non spiega abbastanza. Meglio precisare che sono per lo più donne: un pubblico di signore che inizia a interessarsi di cucina con lo sguardo accondiscendente di chi è disposto a riconoscere come anche preparare una minestra possa diventare un gesto di distinzione sociale. Donne che fino a quel momento avevano lasciato a una qualche “servetta” la preparazione dei pasti e che ora sono spinte a occuparsi del ménage domestico per via del diffondersi di nuovi ruoli e funzioni nell’organizzazione della famiglia borghese, soprattutto urbana. La stessa redazione delle numerose edizioni del ricettario è condizionata dalle fitte corrispondenze che Artusi intrattiene con le sue lettrici e che alimenta un passaparola capace di incrementare le vendite e attualizzare e rilanciare il dibattito attorno alla trattatistica gastronomica e domestica. Se ne origina un sapere esperto molto differente da quello che caratterizza la trattatistica francese, per lo più rivolta a professionisti o raffinati gourmand. Un sapere che sembra alla portata di tutti, a patto di essere disposti a mettere in campo qualche dose di buona volontà. L’autore è, in questo senso, una sorta di alter-ego di tutti i suoi lettori: per anni Ada Boni (1891-1973), autrice de Il talismano della felicità (1924), unico long seller a potere contendere la fama del ricettario artusiano, gli rimprovererà una «incompetenza tecnica» assolutamente imperdonabile. Senza comprendere che Artusi funzionava proprio perché dalla sua “imperizia” si dipanava un discorso ragionevolmente abbordabile: come fosse un’alfabetizzazione che favoriva il diffondersi di una pratica semi-sconosciuta fra lettrici fino ad allora abituate e delegarla alla servitù.
L’Artusi – così come spesso La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è chiamato per brevità, identificandolo in tutto e per tutto con il suo autore – è un’opera ancora oggi a catalogo (nel frattempo tradotta in numerose lingue) immancabile negli scaffali del settore cucina delle librerie. Può definirsi un classico, anche se, essendo trattatistica, andrebbe compreso che cosa possa insegnare a un estimatore di cucina del presente. Certo è che per numerose famiglie italiane l’Artusi è un oggetto (non un libro, un vero e proprio oggetto di memoria famigliare, spesso dono di nozze per la sposa) da conservare e sfogliare, magari sorridendo degli appunti a matita scritti a margine da qualche nonna creativa, capace di sperimentare nuovi dosaggi o procedure. Nella ricezione di un classico posseduto, o conosciuto, da buona parte della borghesia italiana del Novecento qualcosa – anzi moltissimo – cambia nel 1970 quando il filologo dell’Università di Bologna Piero Camporesi (1926-1997) cura per Einaudi l’edizione critica del ricettario.
Il corto circuito è evidente sia perché difficilmente gli studiosi di filologia si occupavano di ricettari, sia perché altrettanto difficilmente un tema del genere avrebbe interessato una casa editrice come Einaudi. Cosa accadde? In che senso l’edizione del 1970 parla del nostro Paese e di un’idea d’italianità che vi è diffusa? L’Italia, uscita dalla sua secolare vicenda rurale e dopo una crescita costante dei consumi e del benessere, si trova in quegli anni sull’orlo di una crisi, non solo congiunturale. Dopo la seconda guerra mondiale, di cui la pubblicista Petronilla (pseudonimo di Amalia Moretti Foggia della Rovere, 1872-1947, curatrice di numerose e seguitissime rubriche di economia domestica, cucina e salute per le testate de Il Corriere della Sera) ci aveva raccontato tutte le miserie, l’Italia aveva vissuto ubriaca di ottimismo e voglia di fare. Paese rurale fra gli ultimi arrivati nel processo d’industrializzazione, cresce con la smania di lasciarsi alle spalle un recente passato fin troppo facile da dimenticare. L’abbondanza rimuove la fame per un processo di compensazione logico, l’impianto industriale e le pratiche culturali della società di massa costituiscono una difesa dal retaggio di ristrettezze secolari. In una simile contingenza, nessuno aveva mai avuto il coraggio di provare nostalgia per un qualunque passato alimentare. Camporesi è il primo a farlo, attualizzando il valore di un classico un po’ impolverato, e rimettendo in circolazione tutto ciò che la storia di quel libro aveva significato per l’identità del nostro Paese. La novità sta nel tenore dell’opera di valorizzazione che avviene dall’alto della cultura universitaria per attrarre lettori capaci di cogliere, nelle analisi di una raffinatissima operazione critica, il senso di una nuova idea di Paese in grado di immergersi nelle pastoie del proprio passato per cogliere e affermare nuovi valori.
L’edizione del 1970 apre una nuova versione colta dell’immaginario gastronomico di un Paese che, nella seconda metà del Novecento, inizia a riconoscersi (e a essere riconosciuto) straordinario: per la sua storia, i tesori dell’arte, la musica e il suo cibo. Ancora oggi, nelle pratiche omologanti della globalizzazione, in cui tende a prevalere la versione pop di un Made in Italy cucinario assai diffuso, Artusi indica il senso di un percorso storico e storicizzabile.
Artusi è abilissimo a codificare un modello al di fuori delle rigidità del canone professionale. E non c’è dubbio che molti degli usi della cucina famigliare borghese novecentesca siano stati da lui elaborati e trasmessi. Operazione non sempre facile, per la quale poteva essere necessario superare pregiudizi diffusi, criticati bonariamente con l’atteggiamento prudente di un autore capace nella scrittura persuasiva. Come si legge in queste righe dedicate a un’umile Torta di patate.«Se i vostri commensali non distinguono al gusto l’origine plebea di questa torta occultatela loro perché la deprezzerebbero. Molta gente mangia più con la fantasia che col palato e però guardatevi sempre dal nominare, almeno finché non siano già mangiati e digeriti, quei cibi che sono in generale tenuti a vile per la sola ragione che costano poco o racchiudono in sé un’idea che può portare ripugnanza; ma che poi, ben cucinati o in qualche maniera manipolati riescono buoni e gustosi. A questo proposito vi racconterò che trovandomi una volta ad un pranzo di gente famigliare ed amica, il nostro ospite per farsi bello, all’arrosto uscì con questo detto: «Non potrete lagnarvi che non vi abbi trattati bene quest’oggi: persino tre qualità d’arrosto; vitella di latte, pollo e coniglio». Alla parola coniglio diversi dei commensali rizzarono il naso, altri rimasero come interdetti ed uno di essi, intimo della famiglia, volgendo con orrore lo sguardo sul proprio piatto rispose: «Guarda quel che ti è venuto in capo di darci a mangiare! Almeno non me lo avessi detto! Mi hai fatto andar via l’appetito!» A un’altra tavola essendo caduto per caso il discorso sulla porchetta (un maiale di 50, 60 kg sparato, ripieno di aromi e cotto intero nel forno) una signora esclamò: «Se io avessi a mangiare di quella porcheria non sarebbe possibile». Il padrone di casa piccato dell’offesa che si faceva ad un cibo che al suo paese era molto stimato convitò la signora per un’altra volta e le imbandì un bel pezzo di magro di quella vivanda. Essa non solo la mangiò, ma credendola fosse vitella di latte, trovava quell’arrosto di gusto eccellente.»Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Milano, Bur, 2010, p. 641.
Artusi P., Autobiografia, Bra, Slow Food Editore, 1999.
Artusi P., La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (a cura di P. Camporesi), Torino, Einaudi, 1970.
Artusi P., La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (a cura di A. Capatti), Milano, BUR, 2010.
Si tratta, in entrambi i casi, di edizioni critiche, con una lunga e interessante introduzione.
Artusi P., La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Edizione progressiva (a cura di A. Capatti), Bologna, Editrice Compositori, 2012.
Portincasa A., Scrivere di gusto. Una storia della cucina italiana attraverso i ricettari (1766-1943), Bologna, Pendragon, 2016.
Sulle questioni della lingua artusiana, molto interessante è Giovanna Frosini, La lingua delle ricette.
Esiste anche un luogo (Museo Casa Artusi) che ha anche un suo sito.
Ogni anno viene organizzata una settimana artusiana in cui si tiene una giornata di studi tematici (sono risorse che possono essere scaricate online o richieste alla biblioteca del Museo).