C’è una consuetudine invalsa, nella cultura diffusa, a identificare la storia soprattutto con le vicende e le scansioni periodizzanti caratteristiche dell’Europa. Si tratta di una tendenza che ha radici assai profonde. E la cosa non stupisce, se si pensa che è stato proprio il nostro continente, nel cuore dell’Ottocento, a dare i natali alla moderna storiografia scientifica, facendone subito un importante strumento culturale per legittimare il proprio dominio sul mondo. Fu in quell’epoca, infatti, che un’Europa animata dall’euforia della rivoluzione industriale e fiera delle proprie libere istituzioni politiche costruì imperi coloniali sia in Asia sia in Africa sottomettendo grandi civiltà ed elaborando il mito della propria “missione civilizzatrice” su scala planetaria. Andare alla ricerca degli antefatti di una “superiorità” che allora era tanto schiacciante da sembrare quasi genetica significò, per gli storici europei, dare consacrazione definitiva all’idea di progresso (economico, politico, civile, culturale) e ancorare in esclusiva la dimensione della storia (cioè, in ultima analisi, dello sviluppo e della trasformazione) alla civiltà occidentale, da contrapporre orgogliosamente a quelle – considerate invece stagnanti e immobili – fiorite nelle altre parti del globo.La storia, come per lo più la conosciamo, è dunque contraddistinta da un vizio originario di eurocentrismo. E tende a servirsi di un certo modello di periodizzazione che fa leva su alcune scansioni tutte interne alla vicenda occidentale (Antichità / Medioevo/ Età moderna/ Età contemporanea), e che, se e quando ingloba nel proprio racconto le altre culture e civiltà, le presenta come semplici scenari periferici, prima dell’espansione, poi del dominio europeo. Di conseguenza, gran parte della storiografia va alla ricerca delle possibili anticipazioni plurisecolari (o addirittura plurimillenarie) di un determinato rapporto di forza su scala planetaria che in realtà è stato caratteristico soltanto dell’età contemporanea e che sembra oltre tutto oggi destinato a una metamorfosi di cui si fa fatica a immaginare l’esito.
Ma il mondo anteriore alla svolta ottocentesca, come la storiografia che si ispira al metodo della storia globale ha invece, durante gli ultimi decenni, cercato di dimostrare, si presentava in realtà assai più policentrico di quello nel quale si è svolto il nostro passato recente. E, se si considera la scala globale in prospettiva plurisecolare, appare davvero problematico continuare ad assegnare una sorta di primato permanente all’Europa. Al punto che, come ha scritto quindici anni fa Immanuel Wallerstein, per accostarsi oggi proficuamente alla storia sarebbe opportuno dimenticare preventivamente tutto ciò che in proposito si è appreso a scuola1. Un’affermazione, naturalmente, paradossale: non priva, però, di suggestioni preziose. È certamente vero, infatti, che a partire dal Cinquecento gli europei furono i più abili a tessere una trama di connessioni interplanetarie di scala e di intensità inedita, e offrirono un contributo determinante alla costruzione di quel mondo a quattro (e, in seguito, a cinque) parti che rimpiazzò la tradizionale ecumene tri-continentale del mondo antico, formata da Asia, Africa ed Europa. Però, è altrettanto vero che all’interno di questo nuovo spazio globale interconnesso le grandi civiltà planetarie dislocate nei vari continenti continuarono a lungo, come già in passato, a seguire ciascuna il proprio filo. Facciamo qualche esempio.
Quando si narra dell’ondata di esplorazioni e poi dell’espansione europea avviata all’inizio della (nostra) Età moderna da Cristoforo Colombo e da Bartolomeo Diaz, si tende quasi sempre a parlare di decollo di una inedita globalizzazione, contraddistinta dalla supremazia europea su scala planetaria. Ma ci si dimentica che in precedenza vi erano state, in realtà, altre straordinarie esperienze di irradiazione territoriale e culturale diffusa, di cui erano state protagoniste civiltà diverse dalla nostra.La rete della globalizzazione araba, tra VII e XII secolo, era giunta per esempio ad avvolgere spazi sconfinati, che si distendevano dalla penisola iberica al cuore dell’Asia, transitando per le coste mediterranee africane; e le maglie della globalizzazione islamica, a partire dal XIII secolo, giunsero a depositarsi anche su una porzione rilevante dell’immenso subcontinente indiano, per poi dilatarsi ulteriormente in direzione dell’Asia sud-orientale. E quando, tra l’XI e il XII secolo, le repubbliche marinare di Venezia, Genova, Pisa - che da una prospettiva eurocentrica siamo abituati a considerare come le avanguardie protocapitalistiche della storia mondiale di quell’epoca - ebbero la possibilità di operare in quegli spazi lontanissimi, che in precedenza erano risultati sostanzialmente preclusi agli europei, lo fecero assumendo un ruolo non certo da protagoniste, ma semmai da comprimarie, all’interno di un sistema i cui gangli nodali si trovavano nel cuore dell’Asia.
In quel “sistema-mondo” (Wallerstein) la scienza, di cui gli arabi avevano raccolto l’eredità lasciata dalla tradizione greca classica, intrecciandola con le raffinate conoscenze elaborate in India e in Cina e integrandola con la propria ulteriore speculazione, godeva di un invidiabile stato di salute. In Europa, invece, la speculazione scientifica segnava il passo e faceva fatica a emanciparsi dalla teologia. Tra il Due e il Trecento, a quella araba si affiancò poi – senza per questo cancellarla – la globalizzazione mongola, che Gengis Khan e i suoi successori realizzarono a partire dalla dorsale della via della seta; un percorso che attraversava, come ha scritto il geostorico Christian Grataloup, «la più grande costruzione politica terrestre di ogni tempo»2. Vi si incamminò, come sappiamo – ma fu solo uno tra i tanti, gran parte dei quali nati in continenti diversi dall’Europa - anche il nostro Marco Polo, raggiungendo Khambalik (oggi Pechino). Lì, due secoli più tardi, sopravvisse per qualche tempo nei giardini della corte dei Ming una giraffa. L’ammiraglio Zheng He, capo della maestosa flotta imperiale cinese, era riuscito a trasbordarla con successo in patria nei primi decenni del Quattrocento, dopo averla prelevata dall’entroterra di quelle coste africane alle quali più volte era approdato, nel corso di viaggi che lo portarono a solcare gli immensi spazi di quello straordinario mare multiculturale, multietnico, multireligioso – l’oceano Indiano – che si distendeva tra Africa e Asia. Ma Zengh He e la sua flotta non avevano fatto vela solo verso l’Occidente. Orientando il timone in direzione nord, in quegli stessi decenni si spinsero fino ai freddi estremi della Kamchatka, il lembo orientale della Siberia.
Il mondo, dunque, non solo era policentrico, ma le sue parti dialogavano intensamente tra di loro prescindendo del tutto dall’intermediazione europea. E la stessa svolta cinquecentesca, se comportò indubbiamente un fenomeno di disseminazione degli europei sul globo (in America, ovviamente; ma in proporzioni assai più contenute anche in Asia; in misura quasi impercettibile, invece, in Africa), per molto tempo non comportò l’avvio dell’egemonia occidentale. Sotto molti punti di vista, le grandi civiltà asiatiche rimasero superiori a quella europea sino alla fine del Settecento. E gli europei che visitavano quei luoghi ne erano, spesso, pienamente consapevoli.Così, se quella tra Medioevo e Età moderna è una cesura che ha naturalmente un senso per l’Europa e per la periodizzazione della sua storia, mentre meno (o addirittura nulla) ha da dirci in relazione alla storia delle grandi civiltà asiatiche, diverso è indubbiamente il rilievo che, su scala planetaria, assunse il passaggio tra il Sette e l’Ottocento, per i motivi che abbiamo illustrato in apertura di discorso. Diversamente da quello che l’aveva preceduto, il mondo globale che prese forma allora lo fece sotto il segno di una superiorità europea che si mostrava sia, in primo luogo, sotto il profilo degli strumenti bellici e della loro efficacia devastante, sia sotto quello della crescita diseguale della ricchezza e delle opportunità di vita materiali e civili.
Ma quel mondo ormai da tempo sta cambiando. E certo anche per questo una metodologia come quella della storia globale, basata sul riconoscimento del pluralismo e del policentrismo culturale e insofferente nei confronti delle rigidità etnocentriche, ha oggi davanti a sé compiti molto importanti da svolgere.
NOTE
1. I. Wallerstein, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo, Asterios, Trieste 2006.
2. C. Grataloup, Géohistoire de la Mondialisation. Le temps long du Monde, Armand Colin, Paris 2007.
• S. Conrad, Storia Globale. Un’introduzione, Carocci, Roma 2015
• L. Di Fiore, M. Meriggi, World History. Le nuove rotte della storia, Laterza, Roma-Bari 2011
• G. Gozzini, G. Scirè, Il mondo globale come problema storico, Archetipolibri, Bologna 2007
• S. Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato, Raffaello Corina, Milano 2016
• E. Jones, Il miracolo europeo. Ambiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica, il Mulino, Bologna 2005
• J. Osterhammel, N.P. Petersson, Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche, il Mulino, Bologna 2005
• S. Subrahmanyam, Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo (secoli XVI-XVIII), Carocci, Roma 2014
• T. Tagliaferri, La repubblica dell’umanità. Fonti culturali e religiose dell’universalismo imperiale britannico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012