Nazione e progresso: la culla della politica

Per due secoli circa, la Rivoluzione francese è stata, nello stesso tempo, il terreno di un acceso scontro politico e un laboratorio storiografico estremamente fecondo. I due aspetti non erano contradditori. Al contrario, erano inscindibili. Inscindibili nella misura in cui elaborare un’interpretazione di quello che era considerato l’avvenimento fondatore della contemporaneità, delle sue aporie e soprattutto delle sue promesse, significava svelare le regole di un percorso di progresso, di cui la Rivoluzione era, nello stesso tempo, il prodotto e il motore. A partire da queste premesse, generazioni di storici hanno reinvestito in continuazione gli stessi fatti, li hanno riletti, incessantemente. L’elaborazione di nuovi metodi storiografici era subordinata alla convinzione che una corretta lettura della crisi della fine del 1700 avrebbe permesso di svelare le chiavi di un divenire universale con cui erano chiamate a confrontarsi, presto o tardi, tutte le comunità politiche, pensate come comunità sovrane. In altre parole, l’eco della Grande Rivoluzione parlava alla posterità fintanto che funzionavano i due poli concettuali che il 1789 aveva posto al centro del dibattito e dell’azione collettiva (senza, peraltro, inventarli): la nazione, da un lato, e la nozione di progresso, dall’altro, fattori che strutturavano quella che era la vera e unica religione del 1789, la politica.

La crisi della funzione civica della storia

Ora, l’altro ‘89, il 1989, ha segnato simbolicamente e concretamente la fine di quest’epoca. Non la fine della storia, ma la fine del quadro di riferimento a cui fino ad allora si era rivolto il racconto sul passato che si fondava sull’idea che la Nazione fosse la protagonista di un divenire collettivo, di cui la storia era incaricata di tracciare le origini, definire le specificità e spiegare la ragioni. Scrivere la storia e sviluppare un progetto nazionale andavano di pari passo, come ha ricordato ancora recentemente la storica francese Françoise Mélonio, secondo la quale «fare la Nazione significa ricordare insieme. Il progetto di una comunità di cittadini è inseparabile da una ricerca o di un’invenzione delle origini della Nazione.»1 Se il crollo dei regimi sovietici ha squalificato l’idea rivoluzionaria e ha avuto come conseguenza l’apparente superamento delle ideologie, il contemporaneo imporsi sulla scena politica di istituzioni giuridiche ed economiche sovranazionali ha messo direttamente in crisi la centralità della comunità nazionale. La conseguenza è stata la perdita della capacità epistemologica della storia di rendere intellegibile un presente costruito e plasmato al prisma del dogma dell’efficacia economica globale e di un diritto universale. Allora, mentre prima il racconto sul passato era chiamato a costruire linee interpretative (e quindi, per forza di cose, gerarchie interpretative) in grado di spiegare (e inventare) destini collettivi attraverso la sua forza narrativa e l’applicazione di una metodologia scientifica, dopo il 1989, la sua dimensione dinamica in quanto fattore d’aggregazione identitaria, che aveva legittimato il ruolo civico della storia, è venuta meno, rimessa in causa perché incapace di stabilire quella tensione creativa con il presente percepito e raccontato come una novità continua.

Il patrimonio tramandato di esperienze comuni che facevano del passato l’orizzonte della temporalità pubblica, è diventato muto, frantumandosi in un unico e, allo stesso tempo, molteplice contro-racconto, per giustificare l’irriducibile diversità di ogni individuo presente sulla scena pubblica e rimettere in causa ogni tentativo di tracciare dei quadri e dei limiti teorici, suscettibili di ricreare un nuovo ordine di storicità. Naturalmente, se la disciplina storica nel suo insieme ha risentito del cambiamento, la storiografia rivoluzionaria, proprio per la sua stessa natura, nello stesso tempo, eccezionale e estremamente codificata che l’ha contraddistinta sin dai suoi albori, ne è stata tanto stravolta quanto profondamente rinnovata.

La messa in discussione del ruolo paradigmatico dell’esperienza francese

Stravolta perché il rapido esaurimento dello scontro tra le posizioni classiche e liberali a proposito del senso ultimo della Rivoluzione ha portato progressivamente a una profonda rimessa in questione del ruolo paradigmatico dell’esperienza francese. Il dibattito dialettico - che aveva a lungo animato il campo della storiografia rivoluzionaria e che aveva visto negli storici marxisti Michelle Vovelle (nato nel 1933) e Claude Mazauric (1932), da un lato, e nei loro contradditori liberali François Furet (1927-1997) e Mona Ozouf (1931) dall’altro, gli ultimi grandi protagonisti al momento delle celebrazioni del Bicentenario - ha lasciato il campo al moltiplicarsi di opere sintesi consacrate al 1789, la cui pretesa non è stata tanto di rinnovare l’interpretazione dell’avvenimento, quanto piuttosto di sottolineare come, in fondo, l’episodio francese non sia altro che una delle vie della modernità politica attraverso cui si è effettuato il superamento dell’Ancien Régime.

La “lettura atlantica”

Questo nuovo approccio ha portato a una rivalutazione della “lettura atlantica” del fenomeno rivoluzionario, già proposta negli anni cinquanta dallo storico americano Robert Palmer (1909-2002) e dallo storico francese Jacques Godechot (1907-1989), che proponevano di mettere in luce la stretta correlazione che legava gli avvenimenti avvenuti tra le due sponde dell’Atlantico.

Il miglior risultato di questa interpretazione è stato il libro della professoressa emerita dell’Università di Amsterdam Annie Jourdain, La Révolution, une exception française? (2004). In queste pagine, divenute ormai un classico, l’autrice riesce con ammirevole precisione a ricostruire il gioco di scambi intellettuali e di influenze politiche che si delinearono tra l’esperienza americana e l’inquieto continente europeo, segnato sin dagli anni 1780 da una scia di insurrezioni e di dibattiti politici che anticiparono e influenzarono largamente il crollo della monarchia assoluta dei Borbone. In quest’ottica, i Paesi Bassi, fino ad allora marginalizzati, diventano un interessante laboratorio per cogliere l’esistenza e la commistione di una molteplicità di modelli teorici e di esperienze politiche, di cui l’esempio francese non sarebbe tanto il caso più originale, quanto invece il più complesso e il più importante in ragione della forza della Nazione interessata.

Il Global Turn

L’imporsi di un’ottica transnazionale e l’attenzione al gioco di scambi tra le entità politiche hanno poi portato a studiare, in modo particolare da parte della scuola anglosassone, gli avvenimenti dello spazio coloniale e la nascita della prima repubblica nera, ad Haiti nel 1804, dopo una lunga guerra civile.2 Gli studi più recenti hanno messo in luce come le isole caraibiche non siano state solo il teatro di un tragico scatenamento della violenza razziale, ma, accanto a questa, vi sia stato anche il tentativo di riappropriazione del messaggio di emancipazione portato dalla Francia per costruire un modello sociale, segnato dalla dialettica tra rifiuto e integrazione dell’esperienza europea. Il recente libro dello storico americano Jeremy Popkin (1948), professore all’Università del Kentuky, A Concise History of the Haitian Revolution (2012), costituisce un’agile sintesi sull’argomento, che mette in luce come la terribile esperienza haitiana sia anche un laboratorio politico estremamente ricco, guardato con attenzione e apprensione tanto dai giovani Stati Uniti quanto dall’Impero britannico.

L’imporsi del global turn3 l’attenzione accresciuta verso le dinamiche transnazionali, hanno non solo messo in evidenza le aporie del processo emancipatore della Rivoluzione del 1789, ma soprattutto hanno negato la centralità dell’avvenimento nel processo di costruzione della modernità. Il lavoro dello storico inglese Christopher Bayly (1945-2015), The Birth of the Modern World, 1780-1914: global connections and comparisons (2004) costituisce l’esempio più convincente della costruzione di questo nuovo paradigma globale, che riduce l’importanza del teorema de “l’occidentalizzazione del mondo”. L’autore dimostra che una serie di evoluzioni sincroniche tanto negli stili di vita quanto nelle correnti culturali non sono state tanto frutto dell’imporsi dell’egemonia europea, ma degli scambi reciproci e molteplici che si svilupparono tra India, Cina, Africa, America Latina ed Europa. Questa visione, per altro di marca prettamente anglosassone, ha trovato un’altra convincente trasformazione in un lavoro collettivo curato da due studiosi, l’inglese David Armitage (1965) e l’indiano Sanjay Subramanhiam (1961). Il loro The Age of Revolutions in Global Context, c. 1760-1840 (2010) riunisce una serie di contributi che, lungi dall’essere una semplice riproposizione della tesi che opponeva i successi del modello americano e inglese alla fallimentare esperienza francese (e sovietica), rovesciano piuttosto l’assunto secondo cui l’avvenimento rivoluzionario costituì un fattore di sviluppo e d’accelerazione del processo storico. Il crollo dell’Ancien Régime e il processo di affermazione della sovranità nazionale sono cosi ridotti a uno dei tanti momenti di transizione politica che ha vissuto l’Europa, suggerendo nel contempo il carattere epistemologico limitato di un approccio nazionale, o continentale, alla questione, considerato un retaggio da oltrepassare a vantaggio di una transitive global history. In questo contesto, il concetto di rivoluzione come rottura brutale dell’esistente lascia il posto alla nozione di transizione (mondiale), concetto più plastico che permette di rileggere la molteplicità e l’interazione dei processi politici senza focalizzarsi solamente sulla questione dei cambiamenti di regime.

Una nuova attenzione verso la dinamica rivoluzionaria

Se il superamento del carattere paradigmatico dell’avvenimento francese ha ridotto l’impatto degli studi consacrati al 1789, d’altro canto, questa nuova tendenza storiografica ha liberato gli studi sull’argomento da una sovrastruttura teorica che ne limitava anche in parte l’originalità. L’effetto è stato di restituire alla rottura del 1789 il suo carattere indeterminato, avvenimento in divenire in cui gli attori sono chiamati ad agire collettivamente in una relazione dialettica con le circostanze. Il testo dello storico americano (Università della California) Timothy Tackett, In nome del popolo sovrano (trad. italiana 2006), costituisce un esempio illuminante di questo approccio, grazie alla capacità dell’autore di rileggere in maniera inedita l’esperienza dell’Assemblea Costituente a partire da un’analisi dei comportamenti quotidiani dei deputati, che, saldandosi su una biografia collettiva del personale politico tanto di natura sociale quanto culturale, mette magnificamente in luce il processo di scoperta e invenzione delle pratiche assembleari all’alba della Rivoluzione.

Nuove vie verso il terrore: il Direttorio

Il superamento del paradigma sociale come fondamento della conflittualità politica e il contemporaneo esaurimento della visione proposta da Furet, che insisteva sulla dimensione ideologica della lotta politica rivoluzionaria - La politique de la Terreur (2003) di Patrice Gueniffey (1955), professore dell’Ecole d’Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, costituisce l’ultima tardiva interpretazione della scuola critica - hanno lasciato spazio a una valorizzazione della questione delle pratiche rivoluzionarie e delle modalità di costruzione del nuovo regime. Le une e le altre sono state pensate come la traduzione concreta di una cultura politica in formazione, di cui si tratta di cogliere l’originalità e i molteplici apporti fondatori. Questo nuovo approccio, che rivaluta la continuità piuttosto che la dimensione catartica dell’esperienza rivoluzionaria, ha permesso di reinterpretare dei topos storiografici restituendo loro una freschezza concettuale che si era consumata nel corso del tempo e di aprire dei cantieri di ricerca marginalizzati, come nel caso del Direttorio. Fino alla metà degli anni 1990, considerato come una semplice reazione rispetto al momento convenzionale oppure come una semplice parentesi tra i due momenti forti costituiti da Termidoro e Brumaio, la storiografia più recente ha rinnovato l’interpretazione del regime retto dalla Costituzione dell’anno III. Essa vi ha visto un interessante esperienza democratica che ha cercato delle vie innovative per promuovere l’instaurazione di un ordine repubblicano, da un lato, tenendo fede ai principi fondatori del 1792 e, dall’altro, facendosi vettore di una profonda rigenerazione della società, attraverso le istituzioni politiche e culturali. In questo senso, i lavori degli storici della Sorbona Bernard Gainot (1948) e di Pierre Serna (1963) - solo parzialmente tradotti in italiano nelle due raccolte La democrazia rappresentativa (ed. italiana 2010) e Fratelli di Francia (ed. italiana 2013) - sono diventati oramai degli strumenti ineludibili per cogliere la vitalità del movimento neo-giacobino che, lungi dal ripiegarsi in una sterile nostalgia verso l’anno II o nella radicalità settaria della congiura di Gracco Babeuf, rielabora l’esperienza robespierrista all’interno di nuove pratiche democratiche per favorire un reveil républicain destinato ad allargarsi e a includere anche le Repubbliche Sorelle.

Alla ricerca di una lettura repubblicana originale

Proprio questo argomento, a lungo marginalizzato dalla storiografia rivoluzionaria, si sta rivelando come uno dei più interessanti assi di ricerca dell’ultimo decennio grazie agli studi condotti dai due lati delle Alpi, ma che trovano, dal lato italiano, nell’Italia di Bonaparte (2011) di Antonino de Francesco (1954) dell’Università di Milano un illuminante punto di sintesi e una precisa proposta di rinnovamento. Infatti, l’idea di una Grande Nazione francese, che, portata dalle vittorie dei suoi generali, avrebbe imposto la sua egemonia sui paesi conquistati, è stata sfumata a vantaggio di un approccio interpretativo più attento agli intensi scambi che si instaurarono tra la Repubblica francese e le nuove istituzioni che sorsero tanto in Italia quanto in Olanda. Lungi dall’essere la proiezione del dominio francese in Italia, le Repubbliche sorelle si svelano allora essere il (fragile) laboratorio democratico, che, pur scontrandosi con le resistenze locali e le proprie contraddizioni interne, costituisce una esperienza profondamente originale, strettamente collegata alle dinamiche transalpine, a cui la tragica cesura del 1799 (quando l’invasione austro-russa porrà termine all’esperienza cominciata nel 1796) non metterà fine. Al contrario, gli anni del Triennio - come si suole chiamare il periodo che va dall’entrata di Bonaparte a Milano alla caduta della Repubblica Napoletana - si svelano il punto di partenza di una trama che, da un lato, si dipana lungo tutto un ventennio e, dall’altro, diventa l’incubatore di una pratica politica di cui il Primo Console farà tesoro per elaborare la propria politica di riconciliazione della società francese.

Lo specchio della nostra epoca

Dal Bicentenario in poi, sono state numerose le diagnosi che hanno constatato il decesso della storiografia rivoluzionaria, del suo inevitabile scivolamento verso l’oblio, testimoniato dal moltiplicarsi degli articoli di nicchia e delle sintesi costantemente aggiornate che poco hanno modificato, tuttavia, le grandi interpretazioni generali di quell’esplosione che fece crollare troni secolari, portando sulla scena nuovi attori politici. Se è vero che la Rivoluzione francese, e la sua storiografia con lei, non brilla più della luce teleologica che le derivava dal prestigio di essere considerata il momento fondatore di un processo di progresso infinito (e inevitabile), l’eclissi dell’astro rivoluzionario si rivela meno il frutto di un disinteresse verso l’argomento in sé di quanto non sia lo specchio delle preoccupazioni attuali, della difficoltà di tracciare nuove linee di intellegibilità del presente e fondare nuovi orizzonti politici collettivi. Ritornare al 1789 è allora non tanto un omaggio accademico, quanto un atto necessario per pensare la crisi che attraversano le istituzioni e le società attuali e immaginare quindi un’altra comunità politica. Quella futura.

Note

1. Françoise Mélonio, Naissance et affirmation d’une culture nationale, Paris, Ed. du Seuil, 2001, p. 115.

2. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 non venne applicata alle colonie francesi, allora essenzialmente limitate alle isole caraibiche, perché avrebbe di fatto implicato l’abolizione della schiavitù su cui si reggeva il sistema economico delle piantagioni. Nell’agosto 1791 si ebbero, tuttavia, le prime rivolte schiavili nell’isola di Santo Domingo, che progressivamente aumentarono di intensità e di ampiezza tanto che gli inviati della Convenzione Nazionale, arrivati sull’isola nel 1793, dovettero riconoscere lo stato dei fatti e concedere l’abolizione della schiavitù. Nel febbraio 1794, la Convenzione riconobbe l’atto e decretò ufficialmente l’abolizione della schiavitù. Governata dalla figura carismatica di Toussaint Louverture e integrata nella Repubblica francese, l’isola conobbe un momento di tranquillità fino a quando Bonaparte, primo console, cercò di recuperarne il controllo e di ristabilire la schiavitù, inviando un contingente militare nel 1802. Questo nuovo episodio di guerra civile e razziale ebbe termine nel 1804, con la definitiva espulsione o eliminazione dell’elemento bianco dall’isola.

3. Con questo termine si usa indicare l’evoluzione storiografica che ha posto l’accento sulla dimensione mondiale delle vicende politiche dell’epoca moderna e contemporanea, favorendo un’attenzione specifica verso le problematiche degli scambi, circolazione e riappropriazione delle pratiche e delle idee politiche.