Ardea, capitale dei Rutuli, anno 509 a.C. In una gelida notte di febbraio un gruppo di ufficiali dell’esercito di Roma è riunito sotto la tenda del più illustre fra loro, Sesto, figlio del re Tarquinio il Superbo, che siede ormai da oltre vent’anni sul trono dell’Urbe. L’assedio nel quale sono impegnati con le loro truppe si prolunga ormai da tempo, senza che il nemico dia segni di cedimento; incontrarsi per scambiare le valutazioni sulla giornata, pianificare le azioni da compiere l’indomani o semplicemente condividere una coppa di vino è un modo come un altro per ingannare l’attesa. Quella sera però le cose vanno diversamente: tra gli uomini si accende una disputa su quale sia, tra le loro mogli, la più fedele al marito, ormai lontano da molti mesi. La discussione si accende, ciascuno, com’è ovvio, rivendica i meriti della propria sposa, finché nel sovrapporsi disordinato delle voci affiora all’improvviso una proposta: montare a cavallo, presentarsi senza preavviso nelle rispettive case, verificare di persona e con i propri occhi quello che le donne stanno facendo mentre credono i loro uomini impegnati al fronte. Detto fatto, gli uomini si dirigono a spron battuto prima a Roma, poi nel piccolo borgo di Collazia, sorta di feudo personale di uno di loro, Tarquinio Collatino, anche lui strettamente imparentato con la famiglia del re. Senonché, mentre tutte le altre donne sono immerse in equivoci banchetti e festini con le loro amiche, la sola Lucrezia, giovane moglie di Collatino, si dedica nel pieno della notte alla filatura della lana, circondata dalle ancelle, al fievole bagliore delle lucerne. Non ci sono dubbi, è a lei che spetta la palma della più casta; ai protagonisti della bravata notturna non resta che fare ritorno all’accampamento.
Sembrava che la cosa fosse finita lì; invece, il dramma era solo all’inizio. Sesto Tarquinio è rimasto folgorato dalla bellezza di Lucrezia, e più ancora dalla sua inattaccabile castità. E forse più ancora del capriccio erotico gli brucia lo smacco subìto sotto gli occhi dei suoi compagni, tanto più umiliante per il fatto che il vincitore nella singolare “gara delle mogli” è un suo stretto congiunto. Trascorso qualche giorno, il figlio del re decide allora di presentarsi nuovamente in casa di Lucrezia, all’insaputa di Collatino; come aveva previsto, la donna lo accoglie, ignara dei suoi progetti, lo tratta con tutto il riguardo che spetta al figlio del re e infine lo fa accompagnare nella camera degli ospiti. Nel cuore della notte Sesto si sveglia, impugna la spada che ha portato con sé, fa irruzione nella stanza della matrona e cerca di persuaderla a concedersi a lui, alternando preghiere e minacce. Lucrezia è sola, le schiave sono lontane e non possono aiutarla, il marito è in guerra, ma la donna resiste al suo assalitore e neppure la prospettiva della morte sembra indurla a cedere. Sesto ricorre allora alla minaccia estrema: sgozzerà uno schiavo, lo porrà nudo nel letto accanto a Lucrezia, dopo averla uccisa a sua volta, poi dirà a Collatino di aver sorpreso i due in flagrante adulterio, provvedendo a giustiziarli, come la sua posizione familiare lo autorizza a fare. Lucrezia sarà così segnata per sempre da una macchia d’infamia, non solo per aver tradito la fedeltà coniugale, ma per essersi unita a uno schiavo, in un rapporto che i Romani considerano sordido e degradante quant’altri mai. Ed è solo a questo punto che Lucrezia si arrende alla violenza.
È l’alba del giorno dopo quando il giovane Tarquinio si allontana soddisfatto dalla dimora di Collatino: la cittadella in apparenza inespugnabile è stata conquistata, l’onore ristabilito. Quanto a Lucrezia, l’umiliazione dell’affronto lascia poco a poco il campo alla fredda lucidità: convoca uno schiavo e lo invia in gran fretta a chiamare padre e marito, perché accorrano subito a Collazia; intanto, nasconde accuratamente un pugnale nelle pieghe della veste. Al momento opportuno, saprà come servirsene. Quando gli uomini giungono sulla scena del crimine, non resta loro che ascoltare attoniti il resoconto della matrona, che rivendica la propria innocenza e affida il colpevole dello stupro alla loro vendetta. Inutili sono i tentativi di Spurio Lucrezio e di Collatino di confortare Lucrezia e di scagionarla da ogni colpa, ricordandole come la sua volontà sia stata coartata da una violenza cui non avrebbe potuto opporsi; dopo aver pronunciato le sue ultime parole, le uniche che la storia registra di lei – «Non voglio che alcuna donna, in futuro, viva da disonorata adducendo il precedente di Lucrezia» –, la matrona si trafigge con il coltello che aveva tenuto celato sino a quel momento e crolla a terra esanime, tra le grida degli astanti.
Il resto è storia: il cadavere di Lucrezia esibito nel Foro di Collazia, con la piaga dalla quale ancora gronda il sangue, la folla che si raduna, inorridita dal crimine di Sesto Tarquinio, i discorsi con i quali i congiunti della matrona aizzano i cittadini, già da tempo stanchi dei soprusi perpetrati dal re e dalla sua famiglia, la rivolta che in un lampo si estende a Roma e raggiunge i soldati impegnati nell’assedio di Ardea, la cacciata del Superbo e la fine del regime monarchico, che durava da due secoli e mezzo, sin da quando Romolo aveva fondato la città. Tutti eventi che Lucrezia non vedrà mai, anche se ne è diventata la causa involontaria, e dei quali in ogni caso non sarebbe stata protagonista, perché il suo statuto di donna e moglie la esclude dalla sfera della politica e della vita pubblica, confinandola nella sola dimensione familiare e domestica.
Eppure, in un altro senso molto concreto, Lucrezia non muore all’indomani della notte maledetta che ne ha mozzato la breve parabola biografica. Il suo nome è destinato a tornare lungo tutto l’arco della letteratura latina, incessantemente riproposto come quello di una figura esemplare, modello inarrivabile di castità matronale, “regina della pudicizia romana”, come la definisce all’inizio dell’età imperiale il retore Valerio Massimo. In questo senso, la leggenda che la riguarda viene ripresa persino dagli autori cristiani, che procedono a una demolizione sistematica della cultura “pagana” ma che da quest’opera di distruzione salvano tra il poco altro anche Lucrezia. I valori di cui la matrona è portatrice e dei quali la sua storia è testimone si rivelano infatti ancora spendibili nel mondo che i seguaci del nuovo credo stanno costruendo. E tali resteranno ancora molto a lungo, se si considera che la vicenda della donna che si uccise per non sopravvivere alla perdita del proprio onore sarà raccontata durante tutto il Medioevo e l’età moderna, raffigurata in una successione impressionante di dipinti dai massimi artisti di tutti i tempi, effigiata sui cassoni nei quali le spose di alto rango custodivano il loro corredo, come invito perenne a ricordare quello che la società si aspettava da loro, protagonista di testi giuridici, opere letterarie, manuali di casistica, prontuari destinati ai predicatori, talora persino divertite parodie, che testimoniano in ogni caso la centralità della quale continua a godere nell’immaginario collettivo. E la storia di questa lunghissima ricezione giunge sino a lambire il nostro tempo, se si considera che il nome di Lucrezia torna tra l’altro nelle lucide riflessioni di Simone de Beauvoir sul “secondo sesso”.
D’altra parte, quella di Lucrezia non è solo una delle storie più fortunate che i Romani hanno inventato per raccontare la loro cultura e in particolare la loro percezione della donna e della posizione che deve occupare all’interno della famiglia e della società tutta. Intorno a quella vicenda si addensa infatti un vasto pulviscolo di questioni, tutte di straordinaria rilevanza antropologica: la violenza sessuale, il modo di concettualizzare l’adulterio e le ragioni che ne fanno una colpa pressoché esclusivamente femminile, il suicidio e la sua legittimità, ma anche il corretto comportamento che si richiede a un marito, il buon uso della parentela e il rapporto tra vergogna, colpa e sanzione. Ecco che allora l’affaire Lucrezia si rivela un osservatorio privilegiato e un punto di partenza per avviare un percorso a largo raggio, che incrocia alcuni aspetti di primissimo piano della riflessione romana su temi assai rilevanti per la società che li elabora e al tempo stesso destinati ad attraversare da allora in avanti l’intera storia della cultura occidentale.
Su Lucrezia gli autori antichi riferiscono solo poche notizie: il padre Spurio Lucrezio Tricipitino era uno degli uomini più in vista di Roma, all’epoca del re Tarquinio il Superbo, mentre il marito Tarquinio Collatino era imparentato con la famiglia regnante. La coppia risiedeva a Collazia, un borgo a circa 15 chilometri da Roma, capitale di un piccolo feudo che Collatino governava come una sorta di possesso ereditario. E proprio a Collazia avrà luogo il dramma che abbiamo raccontato, la violenza che condurrà la matrona al suicidio ma al tempo stesso farà entrare per sempre il suo nome tra i grandi della storia di Roma.