Autore: Maurizio Viroli
Editore: Economica Laterza, nuova edizione 2020
Pagine: 236
Il libro: Come ricorda, l’autore Maurizio Viroli, emerito studioso di storia e di teoria politica, nella prefazione all’ultimissima edizione del 2020, lo scopo fondamentale del libro non è tanto quello di elaborare e proporre nuove definizioni concettuali di patriottismo e nazionalismo, ma piuttosto quello di analizzarne la genesi, gli sviluppi, le trasformazioni, e soprattutto l’uso dei differenti linguaggi e dei valori morali e civili che li alimentano. Comprendere quello che intendono comunicare leader politici, filosofi, storici, scrittori quando parlano di amore della patria e lealtà verso la nazione, risulta essere l’approccio storicamente più coerente e corretto, immune da contaminazioni ideologiche. In special modo, l’ultima edizione del libro, a detta dello stesso autore, rimedia a una lacuna delle precedenti che avevano trascurato l’apporto dei poeti, degli artisti e dei profeti al lessico del patriottismo risorgimentale. Suggestive e vibranti sono le pagine dedicate alla religione della patria nelle quali Viroli ricostruisce, attraverso le voci dei protagonisti, i nessi che intercorrono tra la visione religiosa della storia dei popoli e l’anelito alla libertà, alla difesa dei principi d’uguaglianza e giustizia che li caratterizzano, soffermandosi sul Nabucco di Verdi e sugli scritti mazziniani, oltre che di Garibaldi e del Nievo.
Indubbiamente, sostiene Viroli, sarà Francesco Crispi (1818 – 1901), primo ministro per quattro mandati sul finire dell’Ottocento, a imprimere la decisiva cesura semantica e valoriale tra “nazione” e “umanità”; i segnali inequivocabili di questa “degenerazione” appaiono evidenti nel diverso peso che iniziano ad assumere parole come “omogeneità etnica e geografica”, “razza”, “identità linguistica e cultuale” all’interno del lessico politico. In particolare, passano in secondo piano il senso di rispetto e di solidarietà tra popoli e la carica ideale e sovranazionale del patriottismo, a vantaggio di ideologie che esaltano la volontà di potenza e la difesa dell’unità unica e individuale della nazione (il filosofo tedesco Herder) contro ogni forma di assimilazione e contaminazione. Di grande interesse, per possibili approfondimenti storici, è pure la riflessione sulla rinascita dei temi della libertà e della patria a opera degli uomini della Resistenza, capaci di vivificare e far risorgere gli ideali del patriottismo repubblicano nella lotta contro l’autoritarismo liberticida nazifascista.Scheda didattica Il testo offre molteplici chiavi di lettura didattiche per cercare di dare senso e profondità storica a tematiche sempre molto dibattute nell’attualità socio-politica.
Ne proponiamo due.
Spunto iniziale per avviare un approfondimento può essere quello di commentare con gli studenti una frase tratta da un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” (novembre del 2018) dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale, in occasione del centenario della fine della Grande guerra, dichiarava: «Oggi possiamo dirlo con ancora maggiore forza: l’amor di patria non coincide con l’estremismo nazionalista». La citazione, che va sicuramente inserita nel discorso del quadro celebrativo, può diventare un ottimo punto di partenza per lavorare sul significato dei termini “patriottismo” e “nazionalismo”, operando differenziazioni semantiche e contestualizzando i significati nel tessuto storico che li ha generati.
Gli studenti saranno sollecitati a riflettere sull’uso scorretto, come sinonimi, dei termini “patria” e “nazione” e a capirne le differenze, collegandoli a precisi eventi e protagonisti storici e cercando di creare nessi multidisciplinari che intreccino - come propone Viroli nell’introduzione - la storia con la letteratura e l’arte, per riuscire ad argomentare e sostenere meglio le opinioni.
Altro tema da approfondire può essere la “degenerazione” che il termine “nazionalismo” ha subito negli ultimi anni, a livello d’informazione massmediatica, trasformandosi nell’usato e abusato “sovranismo”. Si può iniziare una ricerca guidata dal docente, partendo da articoli tratti da quotidiani e riviste on line, per cercare di comprendere il contesto politico che ha originato il termine e le ragioni di una così ampia diffusione. In special modo, per orientare la ricerca secondo linee di sviluppo chiare, va ricostruita la genesi della parola nel quadro della crisi di sfiducia nei confronti dei poteri e delle istituzioni sovranazionali europee e mondiali.
Può essere utile consultare innanzitutto la voce “sovranismo” dell’Enciclopedia Treccani e iniziare a ricostruire ed argomentare prima la contrapposizione concettuale tra “sovranismo” e “globalizzazione”, in seguito i legami con gli altri termini collegati e ricorrenti nel linguaggio politico odierno, quali “populismo” e “Brexit”. Si possono aprire così ampi orizzonti di studio, in grado di far dialogare, con l’aiuto della mediazione del docente, passato e presente in maniera consapevole.
Autore: Claudio Fracassi
Editore: Mursia, 2020
Pagine: 318
«Maestà, mi duole dirlo ma, dopo avere gridato morte al papa, si griderà morte al re. Per me sono tranquillo, sono nelle mani di Dio, ma può dire la M.V. di essere ugualmente tranquilla?» Pio IX, 21 agosto 1871. Parole che sottendono i rischi e il lungo dissidio politico della “questione romana”. Claudio Fracassi - scrittore e giornalista che allo Stato pontificio ha dedicato anche La meravigliosa storia della Repubblica dei Briganti: Roma 1849, Garibaldi, Mazzini, Mameli (2005) e La ribelle ed il papa-re (2009) editi da Mursia - non ha dubbi: il XX Settembre non fu una rivoluzione, e lʼazione militare vi appare irrilevante, eppure fu un evento di portata europea.
Pio IX, sovrano assoluto dello Stato pontificio, fin dalla prima fase dellʼUnità dʼItalia reagì con una «maledizione apocalittica scritta in latino medievale», ironizzarono vari giornali. La sua strategia politico-ecclesiale era già attiva fin degli anni cinquanta dellʼOttocento. Dalla dichiarazione del dogma dellʼImmacolata Concezione allʼenciclica Quanta cura, dal Sillabo – elenco degli errori teologici, filosofici e sociali condannati dalla Chiesa – alla macchina del Concilio Vaticano I, «strategia faticosa quanto effimera di blindamento del sovrano», dietro il dogma dellʼinfallibilità papale. Nellʼestate 1870, Pio IX era ormai isolato da quasi tutti i governi europei.
Contestualmente si snodava la prassi politica. Il governo italiano era diviso: prima la Convenzione di Settembre, accordo con Napoleone III per scongiurare lʼinvasione dello Stato pontificio, per poi “dimenticarsene” approfittando della disfatta francese di Sedan nel corso della guerra franco-prussiana. Vittorio Emanuele II intanto teneva una lunga negoziazione epistolare diretta con Pio IX, volendo essere lui lʼunico arbitro del contenzioso. Su Roma anche i democratici erano divisi. Per Garibaldi si trattava semplicemente di una nuova annessione, diversamente da Mazzini, per il quale Roma rappresentava il sogno e lʼideale, la capitale di una nazione innanzitutto in senso spirituale. Da qui la presa di distanze dallʼiniziativa garibaldina di Aspromonte. Finché Sedan farà saltare gli indugi.
Il 20 settembre 1870 lʼattacco dei Bersaglieri durò pochi minuti, dopo che le cannonate avevano aperto un varco nelle mura aureliane. Il 21 settembre un cronista riportava che «tuttʼintorno al Porticato del Bernini e lungo la gradinata di S. Pietro vi erano tra i 5000 ed i 6000 soldati che vi avevano bivaccato per tutta la notte». Fotografi e cronisti avrebbero documentato la storica svolta. «Si scende in strada, i gendarmi hanno smesso le loro prepotenze. Il popolo di Roma è risorto!» scrive lo stenografo romano Nicola Roncalli. «Il popolo romano è stato tradito. Solo il Giudice Supremo potrà fare Giustizia!» tuonava al contrario un giornale cattolico. Il plebiscito del 2 ottobre 1870 spezzava un nodo millenario di storia. Poco tempo dopo iniziava la mutazione urbana. «Fabbricano furiosamente!» scriveva nel 1872 Ferdinand Gregorovius, medievista di fama. Era la nuova svolta.
Autore: Marco Ferrari
Editore: Mondadori, 2019
Pagine: 213
La vulgata ignora il nome della donna che ha “fatto lʼItalia”, voce e staffetta dei repubblicani. La biografia di Rosalia Montmasson di Marco Ferrari, giornalista e scrittore, racconta ascesa e caduta di una donna che intrecciò la propria passione politica a quella privata per Francesco Crispi, di cui divenne moglie. In una recente intervista l'autore ha raccontato l'insolito incontro con Rosalia, ossia un suo mezzobusto commissionato dallo stesso Crispi sito in un angolo dell'ufficio elettorale del Comune di Pisa. Da qui la curiosità e l'interesse di ricostruirne la storia, tra archivi e la voce dell'ultima discendente.
Nata nel 1823 in Alta Savoia parte del Regno sardo, si trasferì a Marsiglia, sede dei profughi politici e luogo di fondazione della Giovine Italia. Qui conobbe Francesco Crispi, esule e promotore della rivoluzione iniziata a Palermo il 12 gennaio 1848, riparato a Marsiglia causa la repressione borbonica. Con lui, Rosalia si sentì subito parte di quel magma politico europeo. Anche lei condivideva il progetto di un unico paese, dalla Savoia alla Sicilia. Dati i magri compensi editoriali di Crispi, per loro fu una “lotta” quotidiana quasi tutta sulle spalle di Rosalia.
Si sposarono a Malta, ma pochi anni dopo, Crispi fu accusato di complicità con Felice Orsini. Divenuto braccio destro di Mazzini, riparò a Londra dove lo raggiungerà Rosalia.
Incuriosito da una donna tanto straordinaria quanto fedele alla causa, Mazzini la mise a parte degli obiettivi unitari. Da quel momento, Rosalia divenne fondamentale per la lotta risorgimentale, in cui si immedesimava totalmente. Tra il 1856 e il ʼ59 operò a Londra, in Francia e Italia, trasportando i fondi raccolti o le armi necessarie per le cospirazioni.
Al culmine della sua attività di “agente segreto”, ecco la spedizione dei Mille. Unica donna della spedizione nellʼelenco di bordo compare come Crispi “Rosalia”, dopo Crispi Francesco. La battaglia di Calatafimi causò molti feriti, che la nostra eroina riuscì a curare con lucidità e abnegazione. Da quel momento divenne per tutti “Rosalia, lʼangelo dei Mille”. «Nel campo insanguinato di Calatafimi Rosalia fu sorella, fu madre, fu tutto per i feriti», dirà di lei Garibaldi, consacrandone il ruolo anche politico.
17 marzo 1861, trasferimento della coppia a Torino, dopo la nomina parlamentare di Crispi, che guiderà il gruppo repubblicano alla morte di Mazzini. Di lì a poco, però, il trasformismo di Crispi che da repubblicano si fece sostenitore dello Stato forte avrebbe travolto anche la sua vita privata. Iniziò una relazione con la giovane nobildonna Lina Barbagallo, di ceppo borbonico, e con lei ebbe una convivenza part-time a Napoli. Per sposare la nuova compagna lasciò definitivamente Rosalia nel 1875 che, pur circondata dall’affetto di molti repubblicani, si batté invano: il reato di bigamia arrivò fino alla Corte di appello di Napoli, che avrebbe scagionato Crispi. Rosalia ebbe solo un magro sussidio del governo. Il “modello di tutte le donne italiane”, come diceva di lei la regina Margherita, morì a Roma nel 1904 sola e abbandonata. A rimarcare il suo ruolo storico, “La Stampa” di Torino lʼavrebbe ricordata con un ampio titolo. È tempo che la storia narri questa grande donna.
Autore: Carmine Pinto
Editore: Laterza 2019
Pagine: 4967
Il libro: settembre 1860. Garibaldi entra trionfalmente a Napoli e sbaraglia le truppe borboniche. In ottobre, con il plebiscito, il Regno delle Due Sicilie diventa parte del Regno d’Italia.
Eppure sarebbe stato un processo molto lungo e sanguinario, sullo sfondo di una vera guerra civile. La sequenza degli eventi è ormai un topos nella storia patria ma il saggio di Carmine Pinto - professore di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Salerno - ci svela molti aspetti inediti del capitolo della guerra del Mezzogiorno (1860-1870). L'accoglienza riservata a Garibaldi rese irreversibile il cambio di regime. Alla guerra guerreggiata si aggiunse la “guerra mediatica”: stampe, proclami, bandiere collocati nei luoghi pubblici più frequentati e addirittura negli istituti religiosi. Nei luoghi pubblici campeggiava il ritratto di Vittorio Emanuele, il re-soldato. La strategia sociale fu altrettanto abile: per evitare il rischio di sconvolgimenti sociali i garibaldini tutelarono la proprietà.
Allo stesso tempo, si attivò subito la reazione borbonica: l’8 settembre 1860 a Napoli le ingenti truppe borboniche avviarono la loro “eroica guerra”. Dal 30 settembre, a Isernia, si sarebbero riuniti gruppi di notabili che osteggiavano il plebiscito e masse contadine che assaltavano le case dei rivoluzionari. Si formarono oltre un centinaio di bande, soprattutto in Campania, che cominciarono a sferrare attacchi organizzati contro reparti di unionisti meridionali.
La reazione controrivoluzionaria fu corale, tanto da sollecitare l’azione di Francesco II, che formò un nuovo governo e valutò di concedere la Costituzione. Obiettivo: impedire che il Mezzogiorno fosse annesso al Regno sardo. Roma divenne il centro organizzativo della guerra borbonica. A suo favore, attraverso il banchiere Alessandro Torlonia, il papa tentò addirittura un piano di prestito internazionale da 5 milioni di ducati, che però fallì.
Lʼincerta reazione legittimista diede al brigantaggio un valore politico e patriottico. Nel Mezzogiorno iniziò una guerriglia di logoramento ed un’azione criminale di lunga durata. L’organizzazione brigantesca si estese rapidamente diventando assai pericolosa e brutale.
Il Governo unitario, che non riusciva a contrastare il fenomeno, temeva le conseguenze di una prolungata “anarchia”. Per la prima volta sembrò compromesso il successo del Risorgimento, tanto più che le masse del Sud sostenevano i briganti in quanto nemici dei loro nemici, ossia la borghesia terriera, usurpatrice dei beni demaniali.
La guerra al brigantaggio sarebbe diventata un filone dell’arte nazionale. Nel 1864, nell’ambito dell’Esposizione Universale di Torino, si videro dipinti raffiguranti inseguimenti e fucilazioni. L’introduzione della legge Pica legalizzava la repressione, ma veniva anche mostrato l’eroismo dei vinti.
Furono necessari anni per spegnere definitivamente l’offensiva dei briganti. Per quanto prive di un progetto politico, le bande minarono il successo dell’unificazione nazionale.